Pubblichiamo un capitolo de Perché fermare i nuovi OGM, di Stefano Mori e Francesco Panié (Terra Nuova, Firenze, 2024). Si tratta di un libro accurato, documentato e chiaro sulle nuove tecniche di ingegneria genetica applicate alle piante e sui relativi brevetti, tecniche e brevetti visti come il capitolo finale dell’industrializzazione dell’agricoltura. Un aspetto poco considerato quando si parla di nuovi OGM, e sul quale si concentra invece il testo che pubblichiamo, è l’intreccio convergente tra bio-informatica, biologia di sintesi e biotecnologie. A determinare tale intreccio non è solo la logica del profitto (causa-effetto della fusione tra ricerca e industria), ma il fatto che l’informatica e la biologia molecolare dominante hanno lo stesso paradigma: quello cibernetico. L’idea, cioè, che tutta la realtà vivente sia un flusso di informazioni e che tale flusso possa essere controllato e riscritto (non a caso si parla di editing genetico) a piacimento. Per modificare (e brevettare) le piante non serve più nemmeno un sostrato biologico, ma è sufficiente il sequenziamento genetico presente nelle banche dati; a partire da quel “doppione digitale” si possono costruire nuove sequenze in laboratorio (biologia di sintesi), da introdurre poi nell’elemento organico vero e proprio attraverso l’ingegneria genetica (con i nano-materiali come vettori della “riscrittura” genetica). È esattamente lo stesso processo – e lo stesso paradigma – con cui sono stati prodotti i “vaccini codificanti” a m-RNA. Sequenziamento informatizzato del virus; modello biologico elaborato con l’Intelligenza Artificiale; costruzione in laboratorio di una nuova molecola; “informazioni” genetiche da introdurre nei corpi e nanoparticelle come vettore delle “informazioni” che le cellule devono “trascrivere”. Il tutto, ça va sans dire, sottoposto a brevetto. Chi pensa che, fuori dai tempi accelerati delle Emergenze, i modi di procedere della tecno-industria siano più cauti, si sbaglia di grosso. Una volta messo “il piede nella porta”, il territorio da conquistare si allarga a tutto il resto. Infatti, le deroghe alle normative europee in materia di OGM, necessarie per poter commercializzare i “vaccini anti-Covid”, hanno aperto la strada alla deregolamentazione delle Nuove Tecniche Genomiche (NTG) in agricoltura, nonché accelerato la corsa a produrre farmaci genetici per ogni genere di malattia. Quello che avanza insieme a profitti da capogiro è un riduzionismo tanto feroce – le informazioni come “mattoncini” di tutto il vivente, i corpi come algoritmi biochimici – da far impallidire il ben più grossolano meccanicismo dell’Otttocento. L’incubo in cui vogliono incarcerarci è una sorta di piattaforma universale, integrazione di Internet delle cose e Internet dei corpi, ciò che IBM chiama Pianeta Smart.
I due autori sostengono alla fine del libro che per provare a fermare un simile attacco al vivente serve tenere una falce in una mano e un libro di diritto nell’altra. Sulla falce siamo d’accordo.
La nuova frontiera dei semi digitali
I progressi della biologia molecolare da un lato, e delle tecnologie dell’informazione dall’altro, investono le risorse genetiche e i processi biologici in un modo mai visto prima. Il fenomeno dei big data derivanti dal sequenziamento del Dna è figlio delle tecnologie informatiche di nuova generazione, che aprono orizzonti inediti per quello che Luigi Pellizzoni chiama «nuovo dominio della natura»*.
Con il termine “sequenziamento” si intende il processo di determinazione e documentazione dell’ordine delle unità costitutive (i nucleotidi) su un determinato frammento di Dna. Prima di arrivare a mettere in ordine questi minuscoli mattoncini, considerati l’elemento base del codice genetico, c’è voluto tempo.
Abbiamo lasciato Watson e Crick in piedi su quel tavolo dell’Eagle Pub di Cambridge nel 1953, elettrizzati per aver scoperto la struttura a doppia elica tridimensionale dell’acido nucleico. Quasi venticinque anni più tardi, il 24 febbraio del 1977, sulla rivista Nature, compare un articolo composto per metà da combinazioni di quattro lettere: A-C-T-G. Ancora una volta la scoperta è ad opera di un team di scienziati di Cambridge. Alla guida, il chimico Frederick Sanger1. La lista di lettere rappresenta nientemeno che i nucleotidi Adenina, Citosina, Timina e Guanina, che compongono il Dna. Decine di righe con tutte le combinazioni trovate dagli scienziati descrivono il primo sequenziamento di un genoma, che appartiene al virus batteriofago ΦX174. Sanger aveva il pallino di mettere le cose in fila. Ci aveva già vinto un Nobel nel 1958, determinando l’ordine delle molecole che compongono l’insulina. Con il sequenziamento del Dna virale, però, scende al livello di dettaglio più profondo mai raggiunto dalle scienze della vita, che gli vale un secondo premio Nobel per la chimica nel 1980. È lo stesso anno in cui il riconoscimento arriva anche a Paul Berg per le scoperte sul Dna ricombinante, che segnano la nascita dell’ingegneria genetica. Il lavoro di Sanger apre un capitolo di studi che portano, negli anni Novanta, all’ambizioso progetto “Genoma umano”2. Completato nel giugno 2003 e sponsorizzato soprattutto dal governo statunitense, il progetto ottiene un finanziamento di 3 miliardi di dollari e coinvolge centri in diversi paesi del mondo.
Quello che ci interessa, qui, è osservare l’intersezione di diversi campi del sapere e come questo, nel Novecento, abbia portato all’emersione di un nuovo modo di intendere la vita. Un modo che ha prodotto, tra le altre cose, gli organismi geneticamente modificati. L’informatica è uno di quei settori che ha un ruolo determinante nel processo. L’aumento della potenza di calcolo, infatti, è funzionale a raccogliere enormi quantità di dati, utilizzati poi nello sviluppo di nuovi prodotti, a volte fisici ma sempre più spesso immateriali.
La nuova biotecnologia è basata in modo crescente sull’estrazione delle informazioni genetiche e la loro digitalizzazione. Utilizzare i bits al posto della controparte materiale per sviluppare prodotti commerciali, cambia in maniera radicale l’approccio scientifico, abilitando percorsi di mercificazione basati non più sulla realtà, ma su ipotesi relative al funzionamento dei tratti genetici e alle proprietà che emergerebbero dalla loro combinazione. Queste inferenze vengono accettate come vere, o anche soltanto verosimili, con un’approssimazione che non obbliga più a fornire la controprova. Anzi, è più che sufficiente una “sostanziale equivalenza” a innescare cicli di appropriazione e privatizzazione del vivente. Si tratta di un procedimento che avviene per convenzione, senza necessità di fornire prove circostanziate a supporto delle affermazioni o valutare percorsi alternativi. […] questa modalità operativa oggi è il motore del progresso tecno-scientifico.
Dematerializzare i geni: la Dsi
Certo, per produrre colture – anche a livello industriale – rimarrà sempre una dipendenza dal materiale genetico, ma è ormai evidente la tendenza a integrare o sostituire gli oggetti fisici delle attività di ricerca e sviluppo con operazioni computerizzate basate su informazioni di sequenza digitali (Digital sequence information o Dsi). La conseguente crescita esponenziale dei dati generati pone una serie di nuove questioni etiche, normative e legali che osserveremo in questo capitolo. Sono sfide che abbracciano la proprietà intellettuale, la gestione e governance dei dati e co-determinano il doppio movimento di espansione virtualmente illimitata e contemporanea concentrazione del mercato che ne deriva.
Là, dove il confine tra naturale e artificiale perde di senso, dove le definizioni sfumano e regna l’indeterminatezza, le nuove forme di accumulazione trovano infatti il loro miglior terreno di coltura. La creazione di organismi modificati con le nuove tecniche genomiche – siano piante, animali o esseri umani – si colloca su questo crinale come attività promettente, che integra in modo sempre più stabile l’impiego dei big data e dematerializza una fase cruciale del processo di produzione del cibo-merce. Gli impatti sulla realtà, però, quelli sì che possono essere tangibili. Lo sanno molto bene i movimenti contadini, che hanno visto salire all’orizzonte la minaccia della Dsi come strumento di espropriazione dei loro saperi tradizionali, l’aggiramento delle norme internazionali sull’accesso alle risorse genetiche e la messa a repentaglio della relativa condivisione dei benefici con chi le ha conservate ed evolute con il lavoro nei campi3.
Comunità contadine e indigene sono allenate a fronteggiare i continui tentativi di appropriazione delle loro conoscenze e della biodiversità connessa. Piante medicinali, sementi tradizionali e ogni sorta di sapere collettivo condensato in materia vivente è da tempo oggetto di interesse da parte di governi, imprese e supposti enti filantropici come la Rockefeller o la Gates Foundation.
L’attività di bioprospezione (bioprospecting), cioè l’esplorazione della biodiversità per fini di sviluppo commerciale, è antica. Ma emerge come chiara forma capitalistica nel Novecento, con il consolidarsi delle dinamiche di globalizzazione. Il termine viene coniato negli anni Ottanta e già nei primi Novanta è sostituito dai movimenti con il ben più connotato “biopirateria”4. Si tratta infatti, a tutti gli effetti, di un furto di conoscenze tradizionali racchiuse nelle risorse genetiche, con “carotaggi” operati dai ricercatori inviati in missione nel sud globale, che terminano con la brevettazione di un seme o di un farmaco da parte di qualche azienda del nord.
Spesso queste operazioni sono state fatte in violazione di accordi internazionali come la Convenzione sulla Biodiversità, il suo Protocollo di Nagoya5 e il Trattato internazionale sulle risorse genetiche6, che vincolano l’accesso al materiale genetico ad alcune condizioni. La Cbd, tramite il Protocollo di Nagoya, impone a chi vuole sfruttare delle risorse genetiche di ottenere un documento di consenso previo e informato (Pic) dal paese di origine del germoplasma, nonché la firma dei Termini di comune accordo (Mat), che disciplinano invece l’uso che si potrà fare di quel materiale. Queste regole valgono per tutta la biodiversità, eccetto quella inclusa nel Sistema multilaterale (Mls) creato nell’ambito del Trattato sulle risorse genetiche7. L’Mls è un meccanismo di accesso facilitato a 2,5 milioni di campioni di semi e piante di 64 specie di colture e foraggi, elencati nell’Allegato 1 del Trattato. Insieme, rappresentano circa l’80% dei consumi umani di vegetali. La maggior parte di questi campioni è stata raccolta dai campi degli agricoltori, che li hanno selezionati e riprodotti di generazione in generazione. Oggi le risorse genetiche ricomprese nel Sistema multilaterale coprono quasi il 40% dei campioni conservati nelle banche del germoplasma. Il 60% proviene da collezioni nazionali, il 5% da collezioni private e il 35% da banche dei semi di una rete internazionale chiamata Cgiar8. L’accesso facilitato al materiale genetico disponibile nel Mls avviene tramite un contratto standard (Smta)9. Il vincolo da rispettare qui è molto chiaro: «I beneficiari non possono rivendicare alcun diritto di proprietà intellettuale o altro diritto che limiti l’accesso facilitato alle risorse fitogenetiche per l’alimentazione e l’agricoltura o a loro parti o componenti genetiche nella forma ricevuta dal sistema multilaterale»10. Tradotto: non si può brevettare un seme o un suo tratto genetico preso da questo “paniere comune”.
Adesso però la Dsi permette l’accesso all’informazione genetica indipendentemente da quello al materiale biologico. Il che fa sì che non sia più necessario recarsi in un luogo che fornisce sementi o materiale riproduttivo, avviare negoziati e firmare accordi vincolanti. Sempre più spesso, pezzi di genoma codificati in digitale possono essere scaricati da un database. Ma con quali regole?
È esattamente in questo punto che si inserisci il dibattito politico sulla natura delle Dsi. Sono risorse genetiche o dati informatizzati prodotti dalla ricerca? Oltre al Trattato e alla Cbd, la discussione sul tema anima diversi altri spazi internazionali, come la Convenzione sul Diritto del Mare (Unclos) e l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms). I paesi del nord del mondo, Canada e Usa in prima linea, difendono gli interessi dei brevetti e sostengono una definizione di Dsi come dato, non come risorsa. Banchieri del germoplasma, biotecnologi e imprese multinazionali stanno dalla stessa parte. L’accesso alle informazioni di sequenza digitale, dicono, non può essere regolato, dal momento che la libera condivisione delle Dsi è una pratica scientifica comune. Qualsiasi altra soluzione sarebbe controproducente, se non addirittura pericolosa per la salute pubblica o la sicurezza alimentare, poiché renderebbe più difficile alla scienza garantire il benessere che naturalmente deriva dall’innovazione.
I movimenti contadini per la sovranità alimentare sono di un altro parere. Partono dal presupposto che la sicurezza alimentare e il benessere non siano un risultato dell’industria tecnologica, ma di condizioni sociali abilitanti per chi produce cibo in agroecologia. Per questo, con il supporto dei governi del sud globale, spingono per il riconoscimento delle informazioni di sequenza digitale come risorse genetiche a tutti gli effetti, quindi soggette alla Convenzione sulla Biodiversità e al Trattato sulle risorse fitogenetiche. Come detto, il Trattato vieta qualsiasi rivendicazione di brevetto sulle risorse genetiche vegetali o su loro componenti, cioè le informazioni genetiche, derivate da semi presenti nel sistema multilaterale. La Convenzione, dal canto suo, protegge le varietà indigene e selvatiche e le conoscenze tradizionali connesse, suggerendo che brevetti e altre forme di proprietà intellettuale non vadano in conflitto con i suoi obiettivi di conservazione e uso sostenibile della biodiversità.
Il Trattato, la Convenzione e il suo Protocollo di Cartagena sono stati adottati all’epoca della transgenesi, tra il 1990 e i primi anni 2000. Un tempo in cui l’industria sementiera non era ancora concentrata e sviluppata come oggi. Anche per questo, oltre alla capacità di incidenza politica dei movimenti contadini, è stato possibile ottenere risultati che hanno limitato la privatizzazione. Ora, dunque, le imprese hanno due possibilità: modificare questi testi o violarli. Fanno un po’ entrambe le cose, nel senso che oggi li vìolano mentre lentamente operano per cambiarne l’interpretazione attraverso estenuanti negoziati. Stati Uniti e Canada, i loro alfieri, vantano ottimi diplomatici che fanno il lavoro sporco per le aziende. Il loro stratagemma è ripetere fino alla nausea che non c’è alcun legame tra le sequenze genetiche digitali e le risorse fisiche da cui sono state prese, perciò le une non possono essere regolamentate come le altre. Il legame torna magicamente a manifestarsi quando le aziende ottengono il brevetto legato a quella riga di lettere su un monitor, che si estende a tutti gli organismi del mondo che contengono la sequenza di Dna corrispondente. Riducendola ai minimi termini, Guy Kastler la spiega così: «È come se vi facessi una fotografia e dichiarassi: questa è la foto di Stefano e Francesco. Nel momento in cui identifico questa immagine come la vostra rappresentazione, ho creato un prodotto che posso brevettare. Dunque, voi diventate di mia proprietà. Questa è la Dsi, niente di più, niente di meno».
A parte le tecnicalità del processo, le cose vanno così come dice lui. La Dsi viene ricavata dai ricercatori sequenziando campioni fisici ottenuti con prelievi in natura o dalle banche del germoplasma, comprese quelle del Sistema multilaterale. Poi viene caricata in database pubblici (spesso open source) e privati (spesso a pagamento) come prova sperimentale. Tramite processi di biologia sintetica e bioinformatica, oggi è possibile riprodurre queste sequenze con materiale artificiale a partire dai dati, senza più disporre del germoplasma originario.
Il processo, condotto in un vuoto legale creato arbitrariamente dai rapporti di forza che bloccano i negoziati internazionali sulla natura delle Dsi, permette dunque il furto della conoscenza contadina e indigena connaturata alle risorse genetiche. Le premesse della nuova biopirateria digitale sono analoghe a quelle già viste in tempi più analogici, ma più sofisticate. La natura della tecnica gioca infatti un ruolo chiave, consentendo processi di smaterializzazione e ri-produzione nei quali l’intreccio di vita e storia viene prima negato dalla digitalizzazione, poi riaffermato dalla sintesi in laboratorio di nuove forme artificiali proprietarie.
Oggi milioni di sequenze genetiche digitalizzate sono disponibili su Internet, così che ricercatori e imprese fanno una “pesca a strascico” periodica nei database, prevalentemente localizzati in paesi ad alto reddito. Le loro operazioni non sono adeguatamente tracciate e le Dsi presenti nei database non recano quasi mai informazioni chiare sulla loro origine geografica11. Dietro la retorica della conoscenza libera e aperta, si nasconde quindi un doppio rischio: in primo luogo, che queste informazioni vengano ricostituite in materia e poi brevettate come “invenzioni”; di conseguenza, che nessuno acceda più al Sistema multilaterale dopo averlo prosciugato digitalizzando le sue risorse genetiche.
Intendiamoci, una multinazionale che usa le informazioni di sequenza digitale per produrre piante brevettate, non è come una persona qualunque che scarica un contenuto da Internet. È più come un artista famoso che fonda la sua carriera sul download dei brani di un cantautore poco noto, mettendoli nei suoi album e vendendoli alla distribuzione globale coperti da copyright.
Il timore è che questa operazione sulla biodiversità sia stata già fatta diverse volte. Visto che il Dna gira ormai liberamente per il web, la posizione negoziale dei paesi ricchi dentro il Trattato sulle risorse genetiche non è difensiva. Hanno già quello che vogliono e ora propongono un gioco al rilancio, che ammette una discussione sulla natura della Dsi solo a fronte di un allargamento del perimetro del Mls. In pratica, consentirebbero un negoziato per niente scontato sul tema più spinoso del momento solo in cambio di un atto suicida: l’aumento delle specie di interesse agrario disponibili per l’accesso facilitato delle imprese. Questa postura, a metà tra la provocazione e il bullismo istituzionale, ha finora impedito un’interpretazione logica di quanto scritto nel Trattato (il divieto di brevettare il materiale genetico prelevato dallo spazio comune, in qualunque forma), trasformando un accordo internazionale vincolante in un centro per lo shopping senza casse all’uscita.
La convergenza fra tecnica e capitale
Il sequenziamento genetico e la Dsi in quanto tali, tuttavia, non sono classificabili per sé come un’invenzione. Occorre un passaggio supplementare per far scattare il regime dei brevetti. Per questo vale la pena soffermarsi sul ruolo convergente che le diverse tecnologie “di frontiera” svolgono oggi per aprire nuovi spazi di appropriazione e profitto.
Secondo la maggior parte delle leggi sui brevetti, non si può reclamare un diritto di proprietà intellettuale sui prodotti della natura e le scoperte che non prevedono innovazione umana. Dopo la decisione della Corte Suprema degli Stati Uniti nel caso Myriad del 201312, è ormai ampiamente riconosciuto che la mera identificazione di una sequenza genetica in quanto tale non è brevettabile, poiché si tratta di una scoperta e non di un’invenzione.
Nuove tecniche di modificazione genetica e processi di biologia sintetica vengono quindi in soccorso degli scienziati per coprire l’ultimo miglio, determinante per la mercificazione. Le informazioni digitalizzate vengono utilizzate per assemblare materiale genetico prodotto in laboratorio, dargli la forma desiderata e poi introdurre le sequenze in nuovi Ogm realizzati tramite New genomic techniques come Crispr/Cas9. La cosa va a vantaggio sia dei ricercatori che delle imprese sementiere, perché permette di brevettare sia il processo biotecnologico che il tratto genetico risultante, contestando però ogni richiesta di valutazione del rischio, tracciabilità ed etichettatura, con l’assunto che da tutto questo procedimento risultino prodotti equivalenti a quelli della natura.
Il livello di cialtroneria raggiunge vette ancor più alte se guardiamo a quanto è grossolano il processo di brevettazione. Leggere il testo di un brevetto, infatti, mostra quanto gli “inventori” siano molto lontani dal poter rivendicare pretese di esattezza delle loro “creazioni”, ovvero determinare il rapporto causa-effetto tra sequenza genetica e relativa performance dell’organismo in cui viene inserita. Ciononostante, i loro processi sono validati dagli uffici che rilasciano titoli di proprietà intellettuale. Come spiega Denis Meshaka in un approfondimento su una piattaforma francese di controinformazione sugli Ogm13, «le domande di brevetto che coprono sequenze genetiche […] vengono depositate il prima possibile, con rivendicazioni formulate nel modo più ampio possibile. Ma spesso l’applicazione industriale delle sequenze, o la loro “utilità”, se prendiamo la nozione della legge statunitense, è ipotetica».
L’approccio più utilizzato si basa sul concetto di “identità percentuale”. In pratica «qualsiasi sequenza che, ad esempio, è identica almeno all’80%, 90% o 95% alla sequenza effettivamente “inventata” è coperta dal brevetto. Più bassa è la percentuale, maggiore è la gamma di sequenze coperte dal brevetto. Anche con il 95% questo corrisponde ancora a una grande varietà di sequenze, che ovviamente non sono tutte descritte singolarmente».
Le numerosissime possibilità che una sequenza anche molto simile esprima caratteristiche molto diverse da quella brevettata, oltre al fatto che l’espressione di un carattere dipende in parte significativa dall’ambiente e non solo dai geni, testimoniano il livello di approssimazione clamoroso su cui si regge tutto il sistema di appropriazione del vivente. Possiamo affermare senza timore di smentita che si tratta di una pretesa di verità priva di fondamento sostanziale, ma che produce effetti evidenti sui sistemi alimentari.
* in Cavalcare l’ingovernabile. Natura, neoliberalismo e nuovi materialismi, Orothes, Napoli, 2023
1 Sanger F. et al., (1977), “Nucleotide sequence of bacteriophage ΦX174 DNA”, Nature, 265, 687-695.
2 www.genome.gov/human-genome-project
3 Conti M., (2023), Movimenti agrari transnazionali e governance globale, Rosemberg & Sellier, Torino.
4 www.etcgroup.org/content/bioprospectingbiopiracy-and-indigenous-peoples
5 www.cbd.int/abs/default.shtml
7 www.fao.org/plant-treaty/areas-of-work/the-multilateral-system/landingmls/en
9 www.fao.org/plant-treaty/areas-of-work/the-multilateral-system/smta/en
10 www.fao.org/plant-treaty/overview/texts-treaty/en
11 www.twn.my/title2/health.info/2023/hi230301.htm
12 https://supreme.justia.com/cases/federal/us/569/12-398/case.pdf
13 https://infogm.org/en/patents-on-genetic-sequences-excess-and-fragility