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L’occhio del nemico

Su Mondeggi Bene Comune e l’agri-tech “dal basso”

Su Mondeggi Bene Comune e l’agri-tech “dal basso”

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Gran parte del lavoro necessario ad imporre lo sviluppo tecnologico che incarcera la società e devasta il pianeta consiste nel convincere coloro che pagheranno a caro prezzo una nuova tecnologia ad esserne entusiasti. Lo sosteneva Neil Postman facendo l’esempio dell’avvento del computer: il grande capitale e gli Stati, i veri vincitori dell’era informatica, si dovettero dare un gran da fare per convincere i perdenti (più o meno tutte le persone “normali”) dei mille vantaggi che avrebbero potuto trarne. Ma i capitalisti non si trovarono da soli a promuovere l’adesione al nuovo mondo informatico: ad aiutarli accorsero subito i cantori dell’internet e del software libero – forse in cerca di universi cibernetici in cui sfogare la frustrazione di essere stati sconfitti sul campo dalla controrivoluzione, forse in cerca di nuovi modi di fare carriera. Di dimostrare la cantonata (o la mala fede) di chi propagandò il computer e la rete come strumenti di emancipazione si è già occupata ampiamente la storia, ma si sa che la storia insegna solo a chi vuole imparare, e certa gente ha la testa dura. È il caso di Alex Giordano, venditore di pentole quattro punto zero, che si presenta al mondo come «pioniere italiano della rete». Affabulatore del mondo cablato fin dai suoi albori, dopo aver lavorato come consulente aziendale nell’ambito del marketing (anche per Google), oggi è attivo come promotore dell’informatizzazione dell’agricoltura.

Più che di pentole, Giordano è un vero e proprio venditore di fumo – non solo nel senso che non dice niente di sensato, ma nel senso che i suoi sforzi sono tutti tesi a mistificare la vera natura del mondo digitale. Armato del peggior marciume postmoderno (tra cui la tanto amata paladina del cyborg Donna Haraway, che fa comodo a tutti – uno fra i pochi esempi di teorico citato contemporaneamente nei testi di sedicenti antagonisti e in quelli del Pentagono) sostiene un approccio 5.0 in cui i problemi dei foodsystems possono essere hackerati orientando le nuove tecnologie secondo i valori della dieta mediterranea (sic). Il risultato è un improbabile polpettone che tiene insieme un po’ tutto: gli interessi delle multinazionali con quelli delle comunità locali, l’agricoltura digitale con l’agroecologia. Nel nome della complessità e della visione sistemica (cardini della seconda cibernetica), propone un approccio «olistico» in cui l’intelligenza artificiale si dà come sintetizzatore dell’intelligenza collettiva, e i confini fra la macchina e il vivente si sfumano. L’idea che forse più di tutte gli vince il naso rosso da pagliaccio è quella dei data commons, i dati bene comune, che sarebbe la risposta rigenerativa all’estrattivismo dei dati. 

Giordano non è peggiore di tanti servi del potere tecno-industriale che con il loro lavoro accademico lavano via le macchie di sangue, di sfruttamento e di rifiuti tossici dalle superfici scintillanti dei nuovi dispositivi smart. Non sarebbe di grande interesse passare in rassegna i suoi vaneggiamenti se non fosse che recentemente è comparso a Mondeggi Bene Comune, dove il suo collettivo Rural Hack (task-force del centro di ricerca Societing Lab diretto da Giordano all’Università Federico II di Napoli) ha installato una centralina IoT (Internet of Things) per la raccolta di dati ambientali, che verrà integrata con la piattaforma di intelligenza artificiale Wi4Agri per «elaborare modelli predittivi utili alla comunità»[1]. Il tutto in collaborazione con Primo Principio, cooperativa agri-tech responsabile fra le altre cose del sistema di videosorveglianza dell’isola dell’Asinara.  

Ma facciamo un passo indietro: Mondeggi Bene Comune ha recentemente accettato di collaborare a un maxi-progetto di riqualificazione urbana voluto dalla Città Metropolitana di Firenze e finanziato con oltre 50 milioni di euro del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). In un testo pubblicato nel giugno 2024, alcuni ex-presidianti della fattoria occupata avevano criticato questo percorso prendendo in considerazione il PNRR e il progetto di rigenerazione proposto per la tenuta[2]. Del PNRR, in particolare, veniva messo a fuoco il suo impatto sul comparto agricolo, sottolineando come la digitalizzazione dell’agricoltura promossa dal Piano sia essa stessa un disastro ecologico senza alcuna garanzia di effetti positivi, e di come essa porterà alle estreme conseguenze la perdita di saperi legati alla terra già iniziata con la meccanizzazione dell’agricoltura – tendenze palesemente incompatibili con gli obiettivi di difesa dell’agricoltura contadina che avevano guidato l’esperienza della Fattoria Senza Padroni. La riqualificazione della tenuta prevede inoltre la realizzazione di un acceleratore di startup di agricoltura 4.0, con campi sperimentali dove queste coltivazioni potranno essere sviluppate «nel rispetto dei principi dell’agro-ecologia». Il testo degli ex-presidianti suggeriva che il termine agroecologia, quando è in bocca a scienziati, politici e imprenditori, può voler dire tutto e niente, e faceva notare provocatoriamente che i promotori dell’agri-tech avrebbero potuto far passare sotto quella dicitura persino la sperimentazione dei cloni chimerici brevettati (i nuovi OGM, anche detti TEA).

Gli ex-presidianti sostenevano che, accettando di collaborare alla riqualificazione, Mondeggi Bene Comune stava spalancando la porta a progetti che sono un attacco diretto all’agricoltura contadina e di comunità, e contribuendo a legittimare la retorica fintamente green e “inclusiva” dietro cui vengono nascosti. All’epoca sembrava che Mondeggi Bene Comune si stesse incamminando a legittimare la digitalizzazione dell’agricoltura suo malgrado. E invece, giocando d’anticipo sui progetti metropolitani e installando la nuova centralina IoT ben prima dell’arrivo delle start-up, ha addirittura preso l’iniziativa. Questo dispositivo, che promette di ridurre i trattamenti fitosanitari sulla base dell’analisi dei dati metereologici e l’applicazione dell’intelligenza artificiale, racchiude in sé una doppia falsità. La prima è che l’agricoltura industriale possa essere resa sostenibile tramite la digitalizzazione, la seconda è che l’agricoltura contadina (agroecologica e di comunità) abbia bisogno dell’intelligenza artificiale per essere resa sostenibile. L’intreccio di queste due menzogne è un vero capolavoro di impostura intellettuale che contribuisce a inquinare le acque già torbide del dibattito su tecnologia, agricoltura, ecologia. 

Ora, l’idea che una comunità contadina abbia bisogno dell’intelligenza artificiale per farsi il vino risulterà per molti un’idiozia a pelle, senza bisogno di grandi ragionamenti. Indubbiamente questa sensibilità è una buona bussola, ma l’ordine dei problemi che questa vicenda tira in ballo è di ampia portata, per cui potrà essere forse utile mettere in fila alcuni elementi. Innanzitutto, è importante ricordare – contro la propaganda sull’immaterialità e la sostenibilità dei sistemi digitali – che l’intelligenza artificiale non è pensabile senza un apparato globale fatto di satelliti, dorsali di cavi che avvolgono l’intero pianeta, ripetitori, e sensori (che vanno costantemente prodotti, distribuiti, sostituiti e prodotti nuovamente). Come è ormai ampiamente noto, le materie prime delle batterie e dei chip devono essere estratte sventrando la terra con procedimenti di raffinazione che devastano tanto gli ecosistemi quanto le vite di chi li abita. E se fino adesso questa devastazione è stata tenuta sufficientemente lontana dall’occhio delicato dell’osservatore occidentale, le esigenze di disaccoppiamento delle filiere produttive e commerciali (decoupling) con cui l’asse atlantico cerca di garantirsi l’autonomia strategica necessaria ad affrontare la guerra con la Cina stanno dando il via a una nuova stagione mineraria nella stessa Europa. Queste materie prime, che vanno da quelle critiche a quelle strategiche fino alle cosiddette terre rare, sono al centro dello scontro globale per la supremazia tecnologica. 

Il mondo dei dati nella sua totalità accelera il disastro ecologico, non solo per le conseguenze dell’estrattivismo minerario, ma anche per i costi energetici e idrici assolutamente astronomici necessari a mantenere accesi i milioni di computer che popolano i datacenter. Questo apparato globale inoltre non può esistere senza esigere un costante sacrificio di carne umana: dai lavoratori che muoiono nelle miniere africane, all’esercito di etichettatori che vengono sfruttati per addestrare le intelligenze artificiali, per non parlare dei lavoratori resi sempre più ricattabili da sistemi che si nutrono come vampiri della loro esperienza per renderli superflui e sorvegliati da forme di controllo sociale sempre più avanzate. 

Il moloch digitale avanza distruggendo il pianeta e calpestando un’umanità ridotta in schiavitù, e l’intelligenza artificiale ne è il cuore pulsante. L’intelligenza artificiale nasce per fare la guerra, e se da una parte essa è volta ad aumentare l’efficacia con cui gli eserciti uccidono, dall’altra la sua dipendenza da flussi energetici e riserve di materie prime moltiplicherà i conflitti per assicurarsi le risorse necessarie. Queste tendenze che puntano dritte alla guerra robotica totale, lungi dall’essere previsioni distopiche, sono ampiamente riscontrabili nell’attualità – dal genocidio algoritmico di Gaza alle mire espansionistiche USA in Groenlandia o ai discorsi sullo scudo ucraino. In Palestina, vera cartina di tornasole di cosa piove realmente dal cloud, negli ultimi diciotto mesi all’apartheid digitale già consolidato si è affiancato il genocidio automatizzato di decine di migliaia di civili, massacrati tramite l’azione congiunta di vari sistemi di intelligenza artificiale che hanno incrementato esponenzialmente la capacità dell’esercito sionista di seminare la morte nella Striscia. Alla luce del ruolo che l’intelligenza artificiale e la digitalizzazione hanno nel costruire un mondo di sfruttamento e di guerra, e del ruolo che hanno avuto nell’inferno di Gaza – senza mezzi termini l’olocausto della nostra epoca – l’idea che queste tecnologie possano essere messe al servizio dell’agroecologia è una barzelletta che non fa ridere

Non c’è molta differenza fra sostenere che una comunità possa riappropriarsi dell’intelligenza artificiale con finalità agroecologiche e sostenere gli usi civili del gas nervino. Chi diffonde queste idee, però, si garantisce un posto fra i guardiani dell’ordine costituito – con tutte le ricompense che ne derivano. Operazioni come quella di Alex Giordano e soci sono infami e squallide. Infami perché mirano a fare penetrare dal basso le logiche del dominio, a convincere chi cerca – in buona fede – di distruggere la casa del padrone che farlo con gli attrezzi del padrone è possibile, anzi, conveniente. Squallide perché sono basate su una costante opera di stordimento retorico, miscugli di parole chiave senza logica in cui gli elementi di critica vengono neutralizzati citandoli senza mai affrontarli con ordine e onestà. Giusto per fare un esempio, Giordano ammette che l’approccio «black box» alle tecnologie informatiche sottrae sapere agli agricoltori, ma subito dopo millanta la possibilità di smontare e rimontare questi dispositivi per capirne i processi interni.

Ora, l’idea che una piccola comunità di contadine e contadini possa garantirsi un controllo sostanziale sui vari processi di un sistema di agricoltura 4.0 (estrazione e stoccaggio dei dati, addestramento e funzionamento degli algoritmi di intelligenza artificiale, assemblaggio dei chip e dei dispositivi) per metterlo al servizio dell’agroecologia è ovviamente falsa, ed è falsa per vari motivi. È facile rendersi conto che queste tecnologie sono troppo complesse per essere padroneggiate “dal basso”: richiedono conoscenze avanzate di ingegneria, elettronica, matematica, informatica; e dipendono da apparati globali per il funzionamento della rete, la raccolta dei dati, l’estrazione delle risorse minerarie, la produzione di energia. Ma ad un livello più profondo questa idea è falsa perché si basa su una concezione completamente fuorviante di cosa sia la tecnologia e di che rapporto ci sia fra tecnologia e società, ovvero la concezione dominante secondo cui la tecnologia può essere usata liberamente ed è politicamente ed eticamente neutra. Per capire cosa sia effettivamente la tecnologia, la sua definizione va ampliata fino ad includere, oltre al dispositivo in sé, l’utente e le modalità di produzione e utilizzo, ma soprattutto la sfera di elementi politici, economici, simbolici, nonché la relazione con altre tecnologie e con la società nel suo insieme. Ogni tecnologia specifica porta con sé una sfera di elementi (pratiche, competenze, infrastrutture, obiettivi, immaginari) ed agisce in una maniera che Neil Postman definì ecologica: una nuova tecnologia non si aggiunge alla società, ma crea una nuova società. Per fare un esempio, si immagini di dover spiegare cosa sia l’automobile a un uomo dell’antichità: è chiaro che definirla come un dispositivo che converte energia termica in lavoro meccanico per favorire la locomozione, per quanto tecnicamente corretto, sarebbe assolutamente insufficiente a fargli capire cosa effettivamente sia l’automobile. Per permettergli di farsene un’idea minimamente utile bisognerebbe parlargli dei processi industriali ed economici che ne hanno permesso la produzione e l’acquisto di massa, dell’estrazione di combustibile fossile che ne ha garantito il funzionamento, della rete di strade e autostrade che ne ha facilitato la circolazione, della cultura che ne ha fatto un simbolo di status sociale. Diventerebbe chiaro, da questa spiegazione, che l’automobile è stata il fulcro di uno stravolgimento profondo e generale della società, che ha completamente cambiato l’aspetto delle città, i rapporti sociali, le catene di valore. È solo con questa ampiezza di sguardo che possono essere comprese le tecnologie moderne.

La tecnologia va dunque intesa come un “oggetto” socio-storico costitutivo della società, e in quanto tale non è possibile separarlo dal proprio contesto e indirizzarlo verso altri scopi. Le tecnologie della società capitalistica, in particolare, sono inseparabili dalle dinamiche coloniali ed estrattive che generano una distribuzione diseguale di risorse su scala globale, anzi, il progresso delle tecnologie imperiali è esattamente l’indice dei processi di accumulazione capitalista: non un accessorio, bensì l’espressione della struttura economica vigente. Lo sviluppo tecnologico moderno si nutre di un flusso di lavoro e risorse che è per forza di cose asimmetrico: ad esempio, la diffusione dei pannelli solari in Europa non sarebbe possibile se questi dispositivi non fossero prodotti in paesi dell’Asia dove il lavoro ha un costo minore e dove i vincoli ambientali sono pressoché nulli. La conseguenza è che, al massimo, l’impiego di queste tecnologie per affrontare i problemi ambientali non fa che spostarli dal centro dell’impero alle periferie sacrificabili. Se anche la centralina IoT ridurrà in una qualche misura i trattamenti fitosanitari del vigneto di Mondeggi, lo farà solo volgendo a proprio favore i meccanismi di sfruttamento globale, appropriandosi di lavoro a minor costo e producendo danni ecologici dislocati nei paesi in cui vengono estratte le risorse e prodotti i dispositivi. Come ben riassunto da Adrián Almazán, la vecchia idea socialista che le tecnologie del capitalismo possano essere messe al servizio del proletariato è falsa perché il capitalismo è, fra le altre cose, la sua tecnologia. Finché non ci si libera di questo errore di fondo nel pensare la tecnologia sarà impossibile orientarsi e agire efficacemente contro questo presente segnato in maniera cruciale dalla dimensione tecnologica, e si sarà facile preda di ciarlatani come Giordano.

Per promuovere l’adozione dell’agri-tech Giordano sfrutta inoltre una retorica di “naturalizzazione” dello sviluppo tecnologico: così come i contadini del passato creavano «ibridazioni» mettendo il giogo ai buoi (sic), così oggi siamo chiamati a rispondere ai problemi del nostro tempo con i sensori e l’intelligenza artificiale. Creare una falsa linea di continuità fra la civiltà contadina e i dispositivi moderni serve a renderli più rassicuranti e ad occultare le differenze sostanziali che esistono fra tecnologie conviviali, che – riprendendo le categorie di Ivan Illich – promuovono l’autonomia di chi le utilizza, e tecnologie che manipolano e sottomettono l’utente rimanendo di fatto nelle mani di altri. È importante notare che questa è la stessa operazione ideologica che viene regolarmente usata per difendere il ritorno dei cloni chimerici brevettati, che vengono quasi sempre proposti come una versione più moderna ed efficiente di una pratica di selezione delle piante la cui storia si perde nella notte dei tempi. A ben vedere, la “naturalizzazione” delle tecnologie moderne è pressoché onnipresente nel discorso mainstream sull’innovazione tecnologica in qualunque ambito, e serve a celare una discontinuità fondamentale: la tecnologia moderna è fondata su scambi di lavoro e di risorse asimmetrici negoziati sul mercato globale, senza i quali non potrebbe esistere. Intelligenza artificiale e OGM sono entrambi progetti di rapina perché, ancor prima di valutarne gli usi e gli effetti, sono inestricabilmente legati allo sfruttamento e al dominio che li rende possibili. In ballo qui non c’è solo una centralina IoT, ma un vero e proprio modo di pensare che porta dritti fra le braccia del nemico.

Su una cosa Giordano è sincero, ed è quando rivolgendosi a Mondeggi Bene Comune dice: «Noi ci muoviamo un po’ nelle istituzioni […] e sappiamo benissimo che solo con voi possiamo fare questa cosa». Questo è il punto cruciale: l’informatizzazione dell’agricoltura – così come l’incarcerazione tecnologica della società – non può avvenire solo dall’alto, ma ha bisogno di infiltrarsi anche “dal basso” tramite la collaborazione di soggetti sociali che si fanno vettori di accettazione e contribuiscono a normalizzare gli strumenti del potere nell’arsenale di chi vorrebbe resistere. Le parole in questo hanno un ruolo fondamentale: le parole ci permettono di pensare, e la loro mancanza inibisce il pensiero, per cui quasi sempre queste erosioni del senso critico passano attraverso veri e propri furti semantici (in questo caso di parole come agroecologia, comunità, commons, ecc.). Contro questi tentativi di annebbiare la vista e di rubare il senso alle parole, ripetiamo che intelligenza artificiale e digitalizzazione sono guerra generalizzata al vivente. L’idea che questi sistemi mortiferi, che sono al centro dello scontro per la supremazia mondiale ed inestricabilmente legati alle dinamiche di sfruttamento su scala planetaria, possano essere riorientati secondo valori diversi da quelli che effettivamente e materialmente li animano è pura fantasia. Perdere perché il nemico è più forte è una sconfitta che risparmia la dignità, intollerabile invece è non vedere più il nemico perché ormai si guarda il mondo come lui.

Rovereto, aprile 2025

Collettivo Terra e Libertà

[1] https://mondeggibenecomune.org/2025/04/14/verso-i-data-commons-per-lagroecologia-rural-hack-a-coltivare-gaia/

[2] https://mondeggibenecomunque.noblogs.org/