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“Dal fronte umano” n. 4 – Andate a farvi cablare!

“Dal fronte umano” n. 4 – Andate a farvi cablare!

Qui il pdf:

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Un mondo cablato – wired – è un mondo di guerra e di genocidi, di campagne senza contadini e di scuole digitalizzate, di saccheggio minerario e di piante ingegnerizzate, di città disseminate di telecamere e di varchi elettronici.

Noi puntiamo sulla variante umana.

Contro l’artificializzazione della vita, la terra. Contro la schiavitù connessa, la libertà.

Verso la guerra robotica totale. Un nuovo progetto Manhattan

«Industrialismo» indica l’alleanza storica, a partire dal Rinascimento, tra lo Stato e il capitale, tra Cesare e Mammona. La potenza militare di Cesare dipende dalla prosperità di Mammona per il finanziamento, attraverso le tasse e l’indebitamento, dei suoi soldati, delle sue spie, dei suoi ricercatori, delle sue armi, della sua burocrazia e della sua logistica. E Mammona è tanto più prospera in quanto la potenza militare di Cesare le permette di estendere e rendere sicuro il suo campo d’azione.

L’espansione dell’industrialismo genera due tipi di conflitti armati. Il primo è la guerra asimmetrica permanente, che garantisce il dominio dei centri industriali sulle nazioni poco industrializzate, nonostante conflitti contro-insurrezionali incessanti. Oggi, le macchine da guerra neocoloniali non mirano più, in generale, all’occupazione politica, ma semplicemente all’estrazione e al saccheggio delle risorse che alimentano l’alleanza tra Cesare e Mammona. Il secondo tipo è la guerra egemonica (o imperiale), nel corso della quale le superpotenze industriali rivaleggiano tra loro per la supremazia planetaria. Gli antagonismi che ne risultano sono continui, larvati e indiretti, ma provocano sporadicamente delle conflagrazioni mondiali, la cui ampiezza assassina è proporzionale alla potenza tecnologica dispiegata. Di ritorno, questi conflitti suscitano dei progressi tecnologici folgoranti.

Questa scalata agli estremi si chiama oggi «corsa tecnologica».

Come auspicava di recente la sottosegretaria americana alla Difesa per la Ricerca e l’Ingegneria:

Non possiamo permetterci un livellamento del vantaggio tecnologico. È imperativo che il ministero incoraggi la ricerca nelle tecnologie emergenti al fine di prevenire le sorprese tecnologiche. Dobbiamo sfruttare le tecnologie commerciali di punta i cui rapidi progressi possono accrescere le nostre capacità militari.

Nella maggior parte dei casi, tocca ai poteri pubblici (Cesare) farsi carico dell’elaborazione e del lancio di nuove tecnologie. Poiché gli inizi sono troppo incerti e troppo costosi per essere immediatamente redditizi. E poiché queste tecnologie possono dotare il Paese in cui appaiono di un vantaggio militare, prima di servire all’accumulazione di ricchezze private (Mammona).

Il caso ideal-tipico è la creazione dell’industria nucleare attraverso il progetto Manhattan (fine 1942-agosto 1945) negli Stati Uniti. Vale a dire l’istituzione di un complesso scientifico-militar-industriale che ha mobilitato 600.000 persone in 32 siti, segreto sia nella realizzazione sia nelle conseguenze. Il suo obiettivo iniziale era la messa a punto accelerata dell’Arma assoluta, dalle ripercussioni ecologiche planetarie. Questo progetto segnò l’inizio della perdizione morale degli scienziati nel negazionismo nucleare che, in seguito, è diventato la norma, malgrado i 75 milioni di vittime legati ai primi bombardamenti, ai test, alle catastrofi e agli inquinamenti radioattivi.

Tra il 1962 e il 1986, il Pentagono si è profuso nella ricerca in ingegneria informatica attraverso i programmi dell’Information Processing Techniques Office, incentrato principalmente sulla ripartizione del tempo, l’infografia, le reti (Arpanet) e l’intelligenza artificiale. Dal 1983 al 1993, la Defense Advanced Research Projects Agency (DARPA) ha speso un miliardo di dollari supplementari in ricerche informatiche, nel quadro della Strategie Computing Initiative, concepito per l’ideazione e la fabbricazione di microprocessori, l’architettura informatica e i software di intelligenza artificiale. Questa informatica militare ha permesso dei passi avanti nei sistemi esperti, nella visione tramite computer, nel riconoscimento e nella generazione della parola.

Negli anni Novanta, con una buona dose d’aiuti governativi, la generalizzazione dei micro-computer è stata l’occasione della transizione verso le applicazioni mercantili ben presto monopolizzate dai Gafam: Google (Alphabet), Amazon, Facebook, Apple, Microsoft, così come dagli habitués dei finanziamenti militari (IBM, Intel ecc.). Tale generalizzazione ha aperto la strada all’estensione e alla riorganizzazione neoliberale dei mercati finanziari, affrancatisi dalle regolazioni pubbliche del periodo 1935-1975. Tanto più grazie all’high-frequency trading, che permette l’esecuzione a velocità sovrumana (nell’ordine dei decimi di millisecondo) delle transazioni finanziarie da parte degli algoritmi «intelligenti».

L’accelerazione continua delle operazioni militari «intelligenti», la simultaneità del funzionamento dei sistemi autonomi e dell’ipersonica determinano una crisi del controllo e del comando: come governare macchine dalla velocità sovrumana, se non automatizzando a sua volta la direzione delle operazioni? È l’oggetto dei progetti di intelligenza artificiale degli eserciti americano e cinese: il JACD2 americano (Joint All-Domain Command Control) contro il MDPW cinese (Multi-Domain Precision Warfare) – oppure il Nation Defense Management Center russo. In tutti i casi, ritroviamo la stessa strategia di organizzazione del progetto Manhattan, vale a dire un complesso scientifico-militar-industriale incaricato di apprestare quanto prima il comando «intelligente» dell’esercito.

Negli USA, la National Security Commission on Artificial Intelligence, istituita dal Congresso americano nel maggio 2018, ha integrato tra i suoi membri i rappresentanti d’Amazon Web Services, d’Oracle, di Microsoft Researche Lab e di Google Cloud.

La corsa mondiale al profitto economico e alla potenza militare vieta agli Stati industriali di farla finita con la guerra e con i preparativi tecnologici alla guerra.

Il sistema-mondo attuale è segnato dall’indebolimento relativo delle nazioni ancora egemoniche e l’emergere dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa). Di qui al 2030, la Cina, prima potenza produttrice, sarà responsabile da sola dell’aumento del 30% della domanda mondiale di energia, nel momento stesso in cui l’approvvigionamento delle risorse fossili sta declinando, senza sostituti di massa (che si tratti di idrocarburi non convenzionali o di illusioni rinnovabili).

La potenza miltare-economica di uno Stato è proporzionale alla quantità d’energia di cui dispone per alimentare la propria macchina industriale. Fatto da cui deriva che la futura stagnazione delle risorse energetiche implica quella della quantità d’energia da ripartire tra gli Stati.

Ne consegue che l’intelligenza artificiale apparirà ben presto come la causa e insieme l’effetto della preparazione precipitosa alla guerra robotica, chiamata «iperguerra» dagli americani. La sua materialità contribuirà alla moltiplicazione e all’intensificazione dei conflitti per l’accesso alle riserve critiche delle materie prime strategiche (petrolio, gas naturale, minerali, acqua). Al contempo, le sue performance puntano direttamente a ottimizzare l’efficacia omicida delle armi impiegate in tali conflitti.

(brani tratti da Jacques Luzi, Ce que l’intelligenze artificielle ne peut pas faire, La Lenteur, 2024)

Nelle viscere aperte della Terra

La fornitura di materie prime cosiddette strategiche nella democratica Europa è garantita dall’estrazione in regioni del mondo nelle quali lo sfruttamento e l’immiserimento delle popolazioni passano in secondo piano rispetto ai profitti ricavati. Devastazione e inquinamento ambientale, espulsioni delle popolazioni da interi villaggi, malattie croniche per chi rimane e militarizzazione sono scenari molto comuni nei luoghi dove l’estrattivismo minerario si è imposto. Luoghi che comprendono l’America Latina, la Repubblica Democratica del Congo per quanto riguarda la produzione del 60% del cobalto mondiale usato per le batterie elettriche, ma soprattutto la Cina dove il capitalismo digitale convive a stretto contatto con il suo risvolto più materiale. Se lo scontro con la Federazione Russa non è che un’anteprima di quello più decisivo contro la Cina, è proprio da questa che il segretario generale della NATO Stoltenberg mette in guardia per quanto riguarda la “dipendenza da beni come i metalli rari”. E in Europa la questione è presa più che mai sul serio in quanto l’importazione delle terre rare dalla Cina riguarda il 98% del totale. Da un lato il capitalismo minerario di tutti i continenti ha continuato a sviluppare conoscenze e capacità predatorie, intrecciando il saccheggio dei combustibili fossili a quello delle terre rare dalle viscere della terra, dall’altra l’Europa da qualche decennio ha preferito promuovere l’ecocidio al di fuori del proprio cortile, tenendo ben nascosti i risvolti materiali e irreversibili arrecati all’ambiente naturale. Basti pensare che per estrarre un chilo di vanadio vanno purificate 8,5 tonnellate di roccia e utilizzati acidi e processi chimico-fisici non compatibili con la vita sulla Terra. I nuovi scenari geo-politici, con l’annesso sviluppo dell’industria bellica e digitale, esigono il ritorno dell’estrazione anche nei territori europei. E così, con il Critical Raw Materials Act del marzo 2024, il Vecchio Continente si prefigge di “garantire un approvvigionamento sicuro e sostenibile delle materie prime essenziali per l’industria dell’Unione” puntando ad estrarre almeno il 10 % delle materie critiche consumate in Europa da miniere europee. Di conseguenza anche il Senato italiano ha approvato definitivamente l’8 agosto la legge n. 115, che contiene le “disposizioni urgenti sulle materie prime critiche di interesse strategico”, aprendo la strada a nuove miniere attraverso le semplificazioni burocratiche che portano a non più di 18 mesi il tempo per le concessioni di nuovi siti e l’istituzione di un comitato tecnico che redigerà un piano nazionale, al di sopra di ogni scelta territoriale. Su indicazione dell’Europa vengono individuate 34 materie prime “critiche” di cui 16 definite “strategiche”. All’interno di queste compaiono metalli rari e non, rispetto alle quali l’ISPRA ha il compito di mappare e caratterizzare le aree più promettenti per le aziende minerarie. Ad oggi sono 3.016 i siti minerari censiti già sfruttati in passato, ma ora si tratta di aggiornare queste mappe alla luce dei nuovi materiali che storicamente non venivano estratti e ai valori di mercato odierni. I minerali comprendono il cobalto in Piemonte e Sardegna, il titanio in Liguria, il litio nei fluidi geotermici tosco-laziali-campani (con già 7 permessi di ricerca rilasciati dalla Regione Lazio) e quantitativi variabili di terre rare lungo tutto l’arco alpino. In particolare in Trentino-Sudtirolo i giacimenti riguardano la barite, il manganese, la fluorite, il rame e il tungsteno. Di fatto elementi che la Commissione Europea ritiene “rilevanti per le tecnologie che supportano la duplice transizione verde e digitale e gli obiettivi della difesa e dell’aerospazio”. La presenza di ricchi giacimenti minerari in piccole superfici montane porterebbe ad un aggravamento del già fragile e mercificato ambiente alpino. Ricordiamo che questi progetti sono pensati a meno di quarant’anni dalla strage di Stava (Tesero) dove il profitto ha prevalso sulla vita di 268 persone, affogate dall’intreccio di interessi e responsabilità della Provincia Autonoma di Trento e delle ditte estrattive. Tra i rilievi geologici e l’ingordigia dei proprietari delle macchine escavatrici, questo è il tempo di affiancarsi a quell’umanità che da Nord a Sud del pianeta si è messa di traverso al progresso del disastro. A chi si trastulla con l’adagio che la tecnologia digitale non è né buona né cattiva in sé ma dipende dall’uso che se ne fa, ricordiamo che, si tratti di preparare il prossimo mondo tecno-totalitario o di mantenere lo stato permanente di guerra, questi materiali risultano imprescindibili e la devastazione ecologica garantita.

L’Intelligenza Artificiale al lavoro

È sotto gli occhi di tutti l’enorme cambiamento che sta sconvolgendo il cosiddetto mondo del lavoro con l’introduzione dell’Intelligenza Artificiale. In tantissimi campi, dall’agricoltura all’insegnamento, dalle fabbriche ai ristoranti, dal giornalismo arrivando fino all’arte, molte mansioni vengono sostituite dalle macchine “sapienti”. Chi tiene le redini della produzione capitalistica ci dice che per essere competitivi sul mercato è necessario dotarci di questi orpelli digitali. La pubblicità è allettante: gli esseri umani potranno dedicarsi alle attività creative (una vita di soli hobby e rilassanti passatempi), affidandosi alle ben più efficienti macchine per tutti i mestieri logoranti e ripetitivi, liberandosi al contempo dal sempre possibile errore umano e dai conflitti sociali. Riposi e diritti non valgono per l’Intelligenza Artificiale. Essa ha solo bisogno di enormi quantità di energia (e di terre, e di acqua).

Se un simile futuro tecnologico non appare certo roseo, l’argomento azzera-critiche consiste nel convincerci chesso è comunque inevitabile. Al punto che Elon Musk e gli altri guru del Nuovo Mondo propongono un accordo tra imprese private e Stati per la costituzione di un reddito per chiunque perda il lavoro a causa della sua sostituzione con delle macchine. Come se la ricchezza prodotta dalle nuove tecnologie venisse equamente distribuita fra tutti, e non finisse nelle mani di un’iper-classe di miliardari e tecnocrati.

Se dai cieli transumani torniamo sulla Terra, tuttavia, c’imbattiamo in qualcosa che le illusioni tecno-progressiste ci impediscono di vedere. La promessa dell’affrancamento dal lavoro penoso grazie agli «schiavi meccanici» risale fino ad Aristotele, ed ha influenzato gran parte dei movimenti di emancipazione, ma è sempre stata disattesa. Una ricerca recente d’Oltralpe conclude che nel mondo reale del capitalismo tecnologizzato ogni francese sfrutta quotidianamente il lavoro di quattro schiavi in carne ed ossa.

Le necessità quotidiane (mangiare, avere un riparo, stare al caldo, crescere i figli ecc.) non scompariranno per miracolo. O qualcuno le svolge al posto nostro (le macchine incorporano lavoro umano e risorse naturali, e quelle “intelligenti” più delle altre), oppure le ripartiamo in maniera socialmente più equa ed ecologicamente (davvero) sostenibile. Cioè proprio quello che l’economia morale di sussistenza ha fatto per secoli e che ancora oggi garantisce la sopravvivenza di diverse comunità locali in varie zone del Pianeta. Andate a dirlo a un bambino che lavora nelle miniere del Congo o a una donna in lotta contro i colossi delle biotecnologie in Bangladesh che il macchinario digitale è immateriale e green! Andate a dirlo a un operaio di Amazon che nel mondo connesso del just in time si ha più tempo a disposizione! Intanto un sacco di persone, se non hanno la fortuna di possedere beni immobili, devono arrabattarsi in più lavori precari e sottopagati (con sms di lavoro che arrivano mentre si sta già dormendo) solo per pagare un esoso affitto.

Se un domani, per uno dei tanti collassi che il mondo connesso porta nel suo grembo di silicio, la tecnologia ci abbandonasse insieme a Internet, ai tutorial su qualsivoglia tecnica manuale, e alle macchine che svolgevano per noi lavori tanto inessenziali quali procacciarci il cibo, l’umanità sarebbe ancora in grado di muovere le mani, costruirsi un riparo, garantirsi l’autosufficienza alimentare e tramandare i saperi artigianali?

Mai come in questo periodo storico è il caso di imparare ciò che serve per vivere, custodendo come tesori quei mestieri necessari affinati in 30 mila anni di storia comunitaria, e usare il cervello. La giustizia sociale non sarà mai un problema tecnico. Le risposte delle macchine riflettono sempre le domande di chi le ha programmate.

Contro la scuola digitale

Il costo del digitale. Ci fanno credere che il digitale può salvare l’economia e il pianeta in contemporanea, che cliccare è apprendere, che si può fare lezione senza essere presenti, ecc. Le statistiche lasciano intravedere la possibilità di misurare tutto e qualunque cosa. Ma rammentiamo che, come ha dimostrato la crisi gestionale all’occasione dell’epidemia del Covid 19, i mezzi per generare numeri e per scegliere indicatori permettono di imporre scelte politiche.

Intanto gli effetti dolorosi della scuola digitale sono sempre più evidenti: sofferenza al lavoro, perdita di senso, burn out, dimissioni o addirittura a suicidi. La digitalizzazione non aiuta in alcun caso gli alunni a imparare, ma si rivela al contrario nociva da tutti i punti di vista: pedagogico, sociale, sanitario, ambientale. Il tempo passato davanti agli schermi nei giovani dai 16 ai 24 anni arriva oramai alle dodici ore al giorno, provocando perdite di attenzione, riduzione della memoria e della vista, incapacità di concentrarsi su compiti lunghi, disturbi del sonno e dell’apprendimento, disturbi psichici, dipendenza fisicochimica (dopamina) dagli apparecchi elettronici, percezione offuscata del reale e del virtuale. aumento di fenomeni quali stress, angoscia, aggressività, susseguirsi molto rapido di stati d’animo opposti…

L’umano è macchina. Secondo una certa visione delle neuroscienze, gli alunni, come cervelli algoritmici adattati a un mondo-macchina, si piegheranno alla regola imparare, dimenticare ciò che è stato imparato, imparare qualcos’altro. Meno che mai, la scuola è il luogo dell’emancipazione intellettuale e del pensiero. Vi sono apprese la redditività, l’adattabilità, la messa sotto pressione. Al posto di teste ben fatte, la taylorizazzione dei neuroni. Tutto ciò allorché il mestiere d’insegnante sta nella relazione. In un mondo algoritmico, il professore non ha più un granché da insegnare, né saperi né ironia né visione del mondo, e poca umanità da incarnare nei gesti. L’imprevedibile, l’emergere dell’idea che nasce dalla discussione, l’essenziale di una lezione, tutto ciò non ha più senso, perché ciò richiede del tempo. Una lezione costruita con una tale visione dell’umano, non insegna a pensare ma a comportarsi nel modo atteso.

La digitalizzazione non è un’opzione. Il digitale non è uno strumento che potremmo scegliere di usare o meno a seconda delle situazioni, bensì un sistema che si impone a tutti ed in ogni circostanza, richiedendoci di adottare un funzionamento macchinico. Uno strumento è un oggetto creato per facilitare alcuni compiti e utilizzato in funzione dell’obiettivo che ci si è preposti. La scuola digitale non è uno strumento per l’insegnante: il suo utilizzo è imposto; il suo sviluppo risponde a delle strategie industriali, a delle domande provenienti dall’amministrazione. Non ha propositi pedagogici, tranne quello di seguire un modello educativo unico, che nessuno sceglie né pensa veramente, neanche l’istituzione, ma che sposa le forme date dallo sviluppo tecnologico: videoproiezione, connessione, trasmissione di dati fuori dall’orario scolastico

Potremmo appellarci alla libertà pedagogica, chiedere di non essere costretti all’utilizzo di macchine nelle nostre classi. Ma sappiamo che è impossibile, che a partire dal momento in cui una tecnica è introdotta, la libertà del suo utilizzo o meno diventa illusoria, perché si inserisce in un sistema globale che la esige. Dopo un breve momento, la scelta ancora possibile cede il passo all’obbligo di fatto.

La creazione di bisogni che imprigionano. Oggi, quando la rete subisce un guasto, è la «rivolta» (sic) degli insegnanti davanti al Comune. «È ben la prova che c’è un bisogno di digitale». No, è la dimostrazione degli effetti della dipendenza tecnologica, in una situazione di monopolio radicale. È il risultato di un processo di spossessamento che, al principio dello sviluppo industriale, distruggeva dei modi di fare collaudati. Detto altrimenti, per produrre del valore per i mercanti di tecnologia, bisogna aver diffuso all’inizio del disvalore. Rendete le persone dipendenti dai beni e dai servizi dopo aver distrutto le condizioni sociali e culturali che permettevano loro di sussistere autonomamente, e considereranno averne diritto perché i beni ed i servizi rispondono ai loro «bisogni».

È d’altronde perché Internet e le tecnologie del digitale non possono migliorare l’insegnamento, ma che sono stati creati per rendere i loro utilizzatori prigionieri, che gli ingegneri della Silicon Valley ne proteggono i loro figli. Non sottolineeremo mai abbastanza questo punto: è in scuole selettive, dotate di materiale in legno, che mettono l’accento su attività manuali che coltivano le virtù della pazienza e dell’attenzione (cucito, scultura, musica) che crescono i bambini di Bill Gates o Steve Jobs, questi grandi architetti della decerebrazione digitale.

Qualche anno fa, ai primi segni del futuro digitale che ci aspettava, ci sembrava tutto ancora lontano, esagerato, improbabile. Se è abbastanza frustrante misurare l’errore di “svista” compiuto allora, possiamo anche dirci che ciò ci insegna l’importanza di opporsi a delle trasformazioni anche a prima vista insignificanti. Che dei piccoli rifiuti possono, chissà, diventare delle grandi resistenze.

(estratti tradotti del libretto Face à l’école numerique, nous ne sommes pas seuls del Collettivo dell’Appello di Beauchastel pubblicato quest’anno dalle Edizioni La Lenteur. Il Collettivo, nato nel 2013, riunisce insegnanti che si oppongono alla digitalizzazione della scuola)

Se l’inestirpabile resistenza palestinese è un imprevisto nei piani del colonialismo high tech, altre varianti umane si manifestano contro il mito dell’onnipotenza del sistema tecno-capitalista e contro i suoi giochi di dominio. Come la “delegazione inattesa” che ha sabotato le linee ad Alta Velocità in occasione delle Olimpiadi di Parigi. Ben tagliato, giovane talpa!

Rovereto, settembre 2024

Collettivo Terra e libertà