Contro le collaborazioni fra l’Università di Trento e IBM Israel

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Il primo luglio 2025 ha avuto inizio il progetto TRUMAN (“TRUstworthy huMAN-centric artificial intelligence”, letteralmente “intelligenza artificiale affidabile che mette al centro l’umano”), finanziato con 6.5 milioni di euro dell’Unione Europea, e che vede la partecipazione dell’Università di Trento con IBM Israel[1]. All’interno dell’ateneo, una petizione ha cercato di indurre il rettore Flavio Deflorian ad abbandonare il progetto prima del suo inizio, per via del ruolo centrale di IBM nell’infrastruttura informatica dell’apartheid palestinese[2]. Il senato accademico ha però votato per la continuazione del progetto[3], una scelta che il rettore ha giustificato spiegando che «che gli atenei non sono il luogo deputato per assumere decisioni politiche e per avviare azioni di boicottaggio unilaterali, che spettano invece ai governi e agli organismi internazionali».
IBM è un partner storico delle forze di occupazione israeliane, fornitore di computer e software alla polizia israeliana fin dal 1975. In ambito governativo, IBM opera il sistema Eitan, il database centrale della Population and Immigration Authority (PIBA) di Israele, il cui componente principale è il registro dei dati biometrici della popolazione israeliana e palestinese, inclusa quella di Gaza, e che costituisce l’infrastruttura informatica del sistema di apartheid sionista[4]. In ambito militare, IBM ha varie collaborazioni con l’esercito israeliano, inclusa la costruzione e gestione di data center per la logistica militare, in parte tramite la sussidiaria Red Hat, la cui piattaforma software OpenShift – usata dalla maggior parte delle unità dell’IDF – ha avuto un ruolo di primo piano nell’attuale genocidio[5]. Ma la complicità di IBM a apartheid e genocidio è ben più ampia e antica.
Questo opuscolo raccoglie due testi, il cui obiettivo è sostenere le mobilitazioni in corso contro le collaborazioni universitarie con IBM e in generale col colonialismo d’insediamento israeliano, cercando allo stesso tempo di ampliare lo sguardo. Il primo testo ripercorre alcuni passaggi significativi in cui la storia di IBM si intreccia a guerra, genocidio e apartheid, mentre il secondo approfondisce il capitolo forse più oscuro della “società delle soluzioni”: l’olocausto.
Rovereto, settembre 2025
Collettivo Terra e Libertà
Cent’anni di turpitudine
Un secolo di guerre, genocidi e apartheid
Nonostante le prime intuizioni di poter utilizzare delle schede perforate mutuate dal telaio di Jacquard per il calcolo e la gestione delle informazioni risalgano già agli anni trenta dell’800, con il lavoro di Charles Babbage e Semen Korsakov[6], è verso la fine del secolo – in occasione del censimento statunitense del 1890 – che Herman Hollerith costruisce un sistema per registrare e processare dati anagrafici basato su schede perforate. Il successo delle sue macchine tabulatrici lo porterà a fondare, nel 1924, la International Business Machines Corporation (IBM).
Negli anni trenta fu tramite la sussidiaria Dehomag che IBM utilizzò la propria tecnologia per costruire l’infrastruttura informazionale del genocidio nazista[7],[8]. Per approfittare dell’opportunità economica offerta dalla collaborazione col Terzo Reich, IBM modificò i suoi apparecchi, sviluppò un sistema di schede perforate ad hoc, e gestì direttamente la raccolta dei dati – incluso il censimento del 1939 in cui il regime raccolse dati granulari su religione, discendenza e razza di ogni cittadino per mettere in moto la macchina del genocidio. Il sistema di schede perforate di IBM divenne parte integrante della macchina dello sterminio. Nei campi di concentramento, ai prigionieri veniva tatuato un codice a cinque cifre che rimandava ad una scheda perforata contenente informazioni anagrafiche e etniche: il codice 5 nell’apposita colonna indicava un ebreo, 2 un omosessuale. La vita dei prigionieri era così interamente ridotta a una serie di dati processati, catalogati e registrati con tecnologia IBM.
Nel dopoguerra, IBM lavorò allo sviluppo di hardware per SAGE, il sistema di difesa aerea computerizzato, la cui realizzazione fu il più importante progetto di sviluppo informatico dell’epoca. Sarà SAGE a fare di IBM un leader mondiale dell’informatica e l’azienda più competente nella progettazione e nella fabbricazione di computer, software, e componenti critiche. All’interno del progetto, IBM poté sviluppare alcuni dei suoi prodotti più importanti: l’IBM 704[9], la memoria su nastro, Fortran (il primo linguaggio di programmazione commerciale), e l’IBM System/360[10]. In senso strettamente militare, SAGE fu un fallimento, ma grazie ad esso furono raggiunti una serie di traguardi tecnici che misero le basi per l’integrazione dei computer nei sistemi di controllo militare. È tramite SAGE (e i progetti che mise in moto) che si affermò un paradigma di controllo militare centrale, automatico e digitale basato su una rete di satelliti, sensori e comunicazioni su scala globale[11]. Nel frattempo, nel 1952 i tabulatori di IBM erano volati verso il Sudafrica, dove IBM si avviava a diventare il maggior fornitore di strumentazione informatica durante gli anni dell’apartheid, nonostante l’embargo all’esportazione di armi[12].
Il paradigma del controllo informatico centralizzato avrà il suo primo vero e proprio campo di prova nella guerra in Vietnam[13], in particolare nel famoso “campo di battaglia elettronico” progettato dagli scienziati del gruppo Jason, protagonista dell’operazione Igloo White. I dati forniti dalle migliaia di sensori – acustici, sismici e chimici – che l’esercito statunitense aveva disseminato lungo il sentiero di Ho Chi Minh venivano monitorati dalla Tailandia con computer IBM: quando i sensori si attivavano e inviavano un segnale, gli aerei venivano diretti automaticamente verso il bersaglio, e i computer erano in grado di avviare da remoto anche il rilascio di bombe. Nella maggior parte dei casi, nessun soldato vedeva effettivamente il bersaglio. Nonostante l’enorme sforzo tecnico, i sensori non erano in grado di distinguere tra soldati, donne, bambini. Come ebbe a dire un membro delle forze speciali: «tutto quello che sappiamo è che qualcosa la fuori si sta muovendo. Potrebbe essere il vento, un elefante, o un soldato nemico. Non abbiamo praticamente idea di cosa stiamo colpendo»[14]. Intorno al 1970 era diventato evidente che la macchina da guerra americana stava cadendo a pezzi, insubordinazione e diserzioni erano all’ordine del giorno. Il tentativo di affidare la guerra all’aviazione e al corredo di sensori e sistemi automatizzati rispondeva anche alla necessità di continuare il massacro nonostante le crescenti defezioni della variabile umana.
Già negli anni 70 i sensori usati in Vietnam venivano disposti lungo il confine col Messico per controllare e impedire lo spostamento dei migranti, e se ne immaginava l’utilizzo per sorvegliare ex-detenuti e per gestire tensioni sociali e rivolte. Allo stesso modo, la gestione informatica della popolazione che IBM ha sviluppato nella Germania nazista, nel Sudafrica dell’apartheid e nella Palestina colonizzata si ripercuote anche all’interno degli Stati Uniti. IBM ha infatti collaborato con l’agenzia federale statunitense I.C.E.[15], preposta al controllo di immigrazione e dogane – recentemente sotto i riflettori per i rapimenti e le deportazioni indiscriminate che sta eseguendo sotto l’amministrazione Trump e per le proteste che le hanno accompagnate – per automatizzare i processi decisionali dell’agenzia sui migranti, e per contribuire all’identificazione delle persone da deportare.
A partire dal 2015, invece, IBM sviluppò una piattaforma di apprendimento automatico per individuare potenziali terroristi di matrice jihadista fra i rifugiati siriani che approdavano in Europa[16]. Analizzando una vasta mole di dati (estratta all’insaputa dei rifugiati) che includeva social network, indirizzi passati, luoghi di lavoro e relazioni sociali, il sistema produceva un punteggio di rischio che avrebbe dovuto distinguere i combattenti dell’ISIS dai semplici civili. Si tratta di una classificazione di individui basata sulla pura correlazione statistica, sulla semplice impronta nei metadati: la stessa logica con cui Lavender – l’algoritmo di IA che ha prodotto i target dei bombardamenti su Gaza – ha determinato la morte di decine di migliaia di palestinesi[17].
Mettere al centro l’umano
La scheda perforata introdotta da Hollerith e all’origine del successo di IBM rimarrà ampiamente in uso fino agli anni ’80. Negli anni ’60, diventerà simbolo della disumanizzazione e standardizzazione tecnologicamente mediate fra gli studenti americani del Free Speech Movement. Ignari del ruolo di IBM nella gestione dell’olocausto (venuto alla luce solo nel 2001[18]), gli studenti erano però ben consapevoli del crescente ruolo dei computer nella guerra e delle conseguenze delle tecnologie informatiche impiegate dalle università sulle loro vite, tecnologie che – nelle parole di Mario Savio, leader del movimento all’università della California di Berkeley – li rendevano «poco più di una scheda IBM»[19]. IBM, in campo militare tanto quanto in campo civile, può vantare un impegno ormai secolare nella riduzione dell’umano a mero dato: processabile dai computer, controllabile dai governi, sfruttabile dai padroni e uccidibile dagli eserciti. Quando l’umano viene ridotto a dato, la gestione “pacifica” porta infatti sempre con sé un potenziale di violenza latente.
Nelle schede perforate sviluppate da IBM per la “soluzione finale” nazista, i nomi propri degli individui scomparivano per lasciare il posto unicamente a codici leggibili dalle macchine. È quindi una vergogna che siano costoro a parlarci – come recita il titolo del progetto TRUMAN (“TRUstworthy huMAN-centric artificial intelligence”) – della necessità di mettere al centro l’umano. Ed è ancora più vergognoso che mentre il massacro dei palestinesi viene affidato pressoché in toto all’intelligenza artificiale, che mette l’umano al centro del mirino, vi sia chi si spende per «aumentare la fiducia degli utenti in questi sistemi»[20].
L’idea che l’intelligenza artificiale possa mettere al centro l’umano è inoltre una contraddizione in termini: il programma dell’intelligenza artificiale (ovvero l’automazione del pensiero e delle funzioni cognitive) si inserisce nel solco dell’automazione industriale – un progetto la cui ambizione non è sostituire ma marginalizzare e dequalificare il lavoro umano rendendolo più sorvegliabile e ricattabile[21]. In ambito militare poi, l’umano viene riposizionato rimuovendolo da un punto cruciale: la decisione di uccidere – mettendo la macchina di morte al riparo da eventuali interferenze umane.
Pretendere la cessazione del coinvolgimento dell’Università di Trento nel progetto TRUMAN, dunque, deve essere motivato non solo dalla cruciale esigenza di fare tutto il possibile per ostacolare concretamente il genocidio sionista, ma anche da un netto rifiuto di lasciarci trasformare in punti dati in una società gestita algoritmicamente. Questi sistemi non hanno in sé nulla di affidabile né di umano, anzi, sono all’opera per piegare ed assimilare l’umano alla fantasia ripugnante di un mondo perfettamente conoscibile e controllabile da parte di chi detiene i mezzi della potenza. Per fortuna, è ancora possibile fare breccia nel paradigma del controllo totale: lo dimostravano i combattenti vietnamiti, che avevano imparato a ingannare i sensori con suoni di camion registrati o secchi di urina[22], e lo dimostra quotidianamente la resistenza palestinese. Ma non c’è tempo da perdere, ne va anche della nostra vita.
[1] Alessandro Ferrari, “Il progetto di ricerca sull’intelligenza artificiale tra l’Università di Trento e Ibm Israel”, Altreconomia, 18 giugno 2024. IBM Israel riceverà la quota più alta di fondi (724 mila euro), mentre l’Università degli Studi di Trento incasserà 709 mila euro. La durata prevista del progetto è di tre anni, fino al giugno 2028. L’Università di Trento partecipa anche ad un altro progetto europeo che si occupa di cloud computing e IA insieme a IBM Israel (e alle sedi svizzere, irlandesi e statunitensi di IBM), il progetto CLOUDSTARS. Per informazioni dettagliate sui due progetti: cordis.europa.eu/project/id/101214000 e cordis.europa.eu/project/id/101086248.
[2] A questo si aggiunge la possibilità che i risultati del progetto – che prevedono di sviluppare strategie di attacco (oltre che di difesa) a un sistema di IA, possano essere usate in chiave offensiva.
[3] Gabriele Stanga, “L’Università di Trento non si ritira dal progetto con Ibm Israel. Gli studenti: «Un errore»”, il T, 26 giugno 2025.
[4] Difficile non immaginare che i dati anagrafici della popolazione di Gaza gestiti da IBM Israel siano stati usati anche per scopi militari dopo il 7 ottobre.
[5] Per maggiori dettagli sul ruolo di IBM nel colonialismo d’insediamento israeliano, il movimento BDS (“Boycott, Divestment, Sanctions”) ha stilato un profilo di complicità dell’azienda consultabile al link: https://www.bdsmovement.net/no-tech-oppression-apartheid-or-genocide#3.
[6] Valery V. Shilov & Sergey A. Silantiev, “‘Machines à Comparer les Idées’ of Semen Korsakov: First Step Towards AI”, IFIP International Conference on the History of Computing, 2016.
[7] Ron Salaj, “In the Name of Efficiency, the Time of Monsters has Arrived”, Verso Books Blog, 2025.
[8] Harry Murphy, “Dealing with The Devil”, The History Teacher, 2019.
[9] È sull’IBM 704 che John McCarthy, uno dei padri fondatori dell’IA, svilupperà LISP, un linguaggio di programmazione di alto livello (tutt’ora in uso) che diventerà centrale nel campo dell’IA simbolica.
[10] Si veda a proposito: www.ibm.com/history/sage.
[11] Paul Edwards, The closed world: Computers and the politics of discourse in Cold War America, MIT press, 1996.
[12] National Action/Research on the Military-Industrial Complex (NARMIC), and American Friends Service Committee, “Automating Apartheid: US Computer Exports to South Africa and the Arms Embargo”, 1982.
[13] IBM aveva stretti rapporti con le forze armate statunitensi. Ad esempio, l’IBM 1130/2250 era uno dei computer standard dell’aviazione, usato in varie basi in Vietnam e Tailandia, e IBM forniva software e hardware per centinaia di stazioni per l’elaborazione dati in tutto il Sud-est asiatico. Vedi a proposito: Dan Feltham, When Big Blue Went to War: A History of the IBM Corporation’s Mission in Southeast Asia during the Vietnam War (1965–1975), Abbott Press, 2012.
[14] Paul Dickson, The Electronic Battlefield, Indiana University Press, 1976. Allo stesso modo, gli ufficiali che operano il sistema di IA Lavender (deputato all’individuazione dei palestinesi da bombardare a Gaza), non verificano le decisioni dell’algoritmo e si limitano a eseguire un unico controllo della durata di pochi secondi: verificare dal suono della voce che il bersaglio sia di sesso maschile.
[15] Si veda a proposito: www.investigate.afsc.org/company/ibm
[16] Kate Crawford, Né intelligente, né artificiale: il lato oscuro dell’IA, Il Mulino, 2021.
[17] Si veda a proposito: Yuval Abraham, “‘Lavender’: The AI machine directing Israel’s bombing spree in Gaza”, +972 Magazine, 2024
[18] Edwin Black, IBM and the Holocaust: The Strategic Alliance Between Nazi Germany and America’s Most Powerful Corporation, Crown Books, 2001.
[19] Larson, Max. “Computer Center Sabotage, 1968–1971: Luddism, Black Studies, and the Diversion of Technological Progress.” boundary 2, 2023.
[20] Se l’obiettivo è di rassicurare gli utenti, non gioca certo a favore l’acronimo TRUMAN, che evoca sia il presidente americano che autorizzò l’uso della bomba atomica sia il protagonista di The Truman Show, il quale vive sotto costante osservazione in una realtà completamente fabbricata.
[21] Il rapporto fra divisione del lavoro, sorveglianza e automazione risale alle origini del calcolo automatico, si veda a proposito: Meredith Whittaker, “Origin stories: Plantations, computers, and industrial control”, Logic(s), 2023.
[22] Per far attivare i sensori chimici, vedi: Rebecca Gordon, “Keep Your LAWS Off My Planet. Lethal Autonomous Weapons Systems and the Fight to Contain Them”, TomDispatch, 2022.
La società delle soluzioni
Nell’ultimo anno e mezzo si è spesso parlato dello sterminio della popolazione di Gaza come del primo genocidio automatizzato della storia – e a ragion veduta, visti i sistemi di intelligenza artificiale impiegati dall’esercito israeliano per massimizzare gli effetti dei bombardamenti. Tuttavia, quest’espressione – genocidio automatizzato – si trovava già in un libro del 2001, pubblicato in Italia da Rizzoli, mai più ristampato e oggi pressoché introvabile: L’IBM e l’Olocausto. I rapporti fra il Terzo Reich e una grande azienda americana, del giornalista americano Edwin Black. Se la fornitura da parte dell’IBM di tecnologie che sono servite al regime nazista per censire le sue vittime e poi per organizzare la «soluzione finale» è un fatto relativamente noto, la lettura di questo documentatissimo volume restituisce un quadro a dir poco impressionante, soprattutto alla luce dei progressi che hanno fatto negli ultimi ottant’anni i mezzi tecnologici per rendere gli individui più efficientemente controllabili – e all’occorrenza uccidibili. Come scrive l’autore, «l’alba dell’era informatica coincise con il tramonto della dignità umana».
Il libro parte da una domanda: «i tedeschi disponevano sempre di liste contenenti i nomi degli ebrei. All’improvviso, uno squadrone di soldati delle SS arrivava in una piazza cittadina e affiggeva un avviso che ordinava alle persone elencate di riunirsi il giorno seguente alla stazione ferroviaria per essere deportate a Est. Ma come riuscivano i nazisti a procurarsi le liste?».
La risposta sta nelle schede perforate e nel sistema per la loro selezione, «una sorta di precursore del computer». La futura IBM Germania era stata fondata nel 1896 da Herman Hollerith come società di tabulazioni per censimenti. «Hollerith ideò una scheda con fori standardizzati, ciascuno dei quali rappresentava un tratto diverso: sesso, nazionalità, occupazione e così via. La scheda doveva essere inserita in un “lettore”. Grazie a meccanismi a molla facilmente regolabili e a brevi contatti elettrici a spazzole che rilevavano i fori, le schede potevano essere “lette” mentre passavano attraverso un alimentatore meccanico. Le schede elaborate potevano quindi essere suddivise in pile seguendo una determinata serie di perforazioni. Era così possibile selezionare e riselezionare milioni di schede. Si poteva isolare qualsiasi tratto desiderato, fosse esso generale o specifico, semplicemente selezionandole e riselezionandole in base ai fori associati ai dati. Le macchine erano in grado di fornire il quadro di un’intera popolazione oppure di evidenziare un gruppo all’interno di quella popolazione. Era infatti possibile individuare un uomo tra milioni di persone praticando un numero sufficiente di fori sulla scheda e selezionandoli per un numero sufficiente di volte. Ogni scheda perforata sarebbe diventata un magazzino informativo limitato solo dal numero di fori. Non si trattava d’altro che di un codice a barre ottocentesco per gli esseri umani».
Arrivati al potere, ai nazisti si pose il problema della mancanza di un censimento affidabile della popolazione, anche e soprattutto su base razziale. «I pianificatori nazisti volevano che tutti i quarantuno milioni di prussiani venissero censiti e che i risultati preliminari fossero disponibili entro un periodo record di quattro mesi». L’IBM Germania, conosciuta all’epoca come Dehomag (Deutsche Hollerith Maschinen Gesellschaft), «propose una soluzione: avrebbe gestito quasi l’intero progetto come un contratto. Avrebbe studiato un pacchetto per i censimenti in grado di conteggiare e classificare ogni cittadino. Avrebbe inoltre reclutato, addestrato e persino nutrito le centinaia di lavoratori temporanei necessari a condurre il censimento, che avrebbero svolto il lavoro nei locali della stessa Dehomag. Se il governo fosse riuscito a raccogliere le informazioni, l’azienda si sarebbe occupata di tutto il resto».
Black descrive così il meccanismo: «giorno e notte, i dipendenti della Dehomag immettevano le informazioni relative a quarantuno milioni di prussiani al ritmo di centocinquanta schede all’ora. […] Le istruzioni erano chiare e semplici. La colonna 22, religione, doveva essere punzonata in corrispondenza del foro 1 per i protestanti, 2 per i cattolici e 3 per gli ebrei. Le colonne 26 e 27, nazionalità, dovevano essere codificate nella fila 10 per i madrelingua polacchi. […] Le verificatrici tabulavano e controllavano la punzonatura di oltre quindicimila schede l’ora. Quando, all’interno della popolazione, veniva rilevata la presenza di un ebreo, il suo luogo di nascita veniva registrato su un’apposita “scheda di conteggio degli ebrei”, che veniva poi elaborata separatamente. Cominciava quindi il tremendo processo di selezione e riselezione per venticinque categorie di informazioni ordinate e filtrate mediante ben trentacinque operazioni distinte: in base alla professione, alla residenza, alle origini nazionali e a una miriade di altri tratti. Il tutto doveva essere correlato con le informazioni fornite dagli uffici del catasto, dalle liste municipali e dalle autorità ecclesiastiche al fine di creare un nuovo esauriente database. Il risultato era una rilevazione della presenza ebrea professione per professione, città per città e addirittura rione per rione».
A partire dal 1934, lo stesso sistema venne usato anche per elaborare i dati raccolti dai medici sullo stato di salute dei pazienti, dati che creavano un «profilo eugenetico» sulla base del quale ogni singolo paziente sarebbe rientrato o meno nei programmi di sterilizzazione, che «colpirono innanzitutto coloro che erano stati giudicati malati di mente, ritardati, epilettici o affetti da sindrome maniaco-depressiva», per poi essere allargati anche agli «indesiderabili dal punto di vista sociale. I cosiddetti antisociali, vale a dire i disadattati che non sembravano idonei al lavoro».
Nel 1939, il copione del censimento razziale si ripeté, questa volta per settantatré milioni di tedeschi e austriaci, con l’obiettivo di «individuare ciascun soggetto prima di ghettizzarlo o di sottoporlo a una qualsiasi azione». «La Germania si stava inoltre preparando per la guerra totale e, senza il censimento, non avrebbe potuto sapere con esattezza dove si trovassero gli uomini arruolabili e quali donne si sarebbero assunte le responsabilità economiche una volta iniziata la mobilitazione. Per questi motivi, il censimento era di fondamentale importanza per la guerra» di Hitler. Come già nel 1933, «la Dehomag allestì enormi saloni per il conteggio e divisioni direttive presso la sede centrale dell’Ufficio di statistica berlinese per tabulare le informazioni. All’inizio, l’esercito di operatori della Dehomag perforava 450.000 schede al giorno. Con il passare del tempo, il volume raggiunse il milione al giorno. La società rispettò la scadenza. I risultati preliminari furono pronti già il 10 novembre 1939», primo anniversario della Notte dei cristalli.
Una volta scoppiata la guerra, il regime nazista riuscì a individuare con la stessa velocità gli ebrei di ogni paese invaso o assoggettato, anche grazie all’infrastruttura predisposta nei vari paesi da tutte le filiali europee dell’IBM, che «collaboravano da tempo al fine di sfruttare gli avvenimenti politici e militari del Vecchio continente. Gli addetti alle vendite facevano di continuo la spola tra i loro paesi e New York o Berlino per l’addestramento e venivano quindi trasferiti di nuovo nelle nazioni d’origine per sovrintendere alle operazioni riguardanti le schede perforate. Verso la fine del 1939, con il consenso di Thomas Watson [presidente dell’IBM], fu aperta a Berlino una scuola di addestramento internazionale per i capi della manutenzione IBM di tutta l’Europa». Anche «gli ordini urgenti piazzati dagli eserciti di paesi come l’Olanda e la Polonia andavano a vantaggio del Reich. Quando i nazisti invadevano i nuovi territori, le macchine Hollerith venivano confiscate e convertite agli scopi tedeschi».
Anche l’elaborazione, in sole quarantott’ore, dei dati riguardanti gli ebrei di Varsavia e dell’intera Polonia – e la successiva organizzazione, in pochi giorni, della deportazione di milioni di individui – fu possibile grazie ai sistemi Hollerith dell’IBM, che era «presente in Polonia, con una sede centrale a Varsavia. L’officina tipografica per le schede perforate, ubicata al numero 6 di via Rymarska, distava solo pochi metri dal ghetto. Là dentro furono prodotti oltre venti milioni di schede».
Come sintetizza Black, «in tutta la Germania e nei territori conquistati, la Dehomag cercò in ogni modo di stare al passo con un’interminabile serie di censimenti, registrazioni e analisi di persone, proprietà e operazioni militari, progetti per i quali erano necessari sia le sue attrezzature sia i suoi servizi di riparazione ed elaborazione. Ogni settimana venivano stampati milioni di schede per soddisfare la domanda».
Se «oltre duemila di questi apparecchi multifunzionali vennero distribuiti in Germania, e altre migliaia raggiunsero i paesi europei sotto il dominio tedesco», anche «in ognuno dei principali campi di concentramento esisteva un centro per la selezione delle schede», noto come Dipartimento Hollerith. «In certi campi, come Dachau e Storkow, erano installate non meno di due dozzine di selezionatrici, tabulatrici e stampanti IBM». Questi dipartimenti e le loro macchine si occupavano del «compito immenso di registrare con efficienza le deportazioni dalle città e i ghetti di diversi paesi, le quotidiane assegnazioni di lavori, e gli orari dello sterminio». Per ogni recluso veniva compilata una scheda perforata contenente «colonne e fori indicanti nazionalità, data di nascita, stato civile, numero di figli, motivo dell’incarcerazione, caratteristiche fisiche ed esperienze lavorative», che avrebbe permesso al sistema Hollerith di seguirlo in tutti i suoi spostamenti e di confrontare le sue caratteristiche con quelle richieste per gli “incarichi” di lavoro forzato vacanti nei vari campi o nelle industrie che se ne servivano. A ciascuno era assegnato «un tipico numero Hollerith a cinque cifre», gli stessi numeri che per primi sarebbero stati tatuati sugli avambracci dei prigionieri di Auschwitz.
«Senza i macchinari dell’IBM, la manutenzione continua e il rifornimento di schede perforate, i campi di Hitler non avrebbero mai potuto eseguire i loro terrificanti compiti come invece fecero», e, come l’autore giustamente rimarca, i dipartimenti Hollerith «non potevano funzionare con manodopera non specializzata. Erano necessari i cosiddetti esperti di Hollerith addestrati da una filiale dell’IBM, che si trattasse della Dehomag in Germania o di un’azienda qualsiasi della località in cui si trovavano i dipartimenti».
Come riassume Black, «come ogni altra evoluzione tecnologica, ogni nuova soluzione alimentava nuove sinistre prospettive e una nuova serie di crudeli opportunità. Quando la Germania decise di identificare gli ebrei per nome, l’IBM mostrò come fare. Quando la Germania decise di utilizzare quelle informazioni per lanciare programmi di espropriazione ed espulsione sociale, l’IBM le fornì i mezzi tecnologici. Quando occorreva che i treni collegassero puntualmente le città o i campi di concentramento, l’IBM ideò un’altra soluzione idonea. In sostanza, non vi era soluzione che l’IBM non fosse pronta a studiare per un Reich disposto a pagare per i servizi resi. Una soluzione conduceva all’altra. Mentre l’orologio ticchettava, mentre le schede perforate frusciavano, mentre gli ebrei tedeschi vedevano annientare la propria esistenza, altri vedevano crescere la propria fortuna».
Se quello appena riassunto è il più agghiacciante, le macchine dell’IBM vennero impiegate dal Terzo Reich – così come dagli altri Stati belligeranti – in molti altri modi: i nazisti scoprirono che potevano «meccanizzare, organizzare e controllare quasi tutti gli aspetti della vita commerciale e privata, dal più grande cartello industriale al più umile negoziante locale»: «le disposizioni del governo imponevano alle società di installare le macchine Hollerith per garantire resoconti tempestivi, omogenei e aggiornati che potessero essere rielaborati». «La tecnologia Hollerith era diventata una componente fondamentale della vita amministrativa tedesca. Le schede perforate avrebbero permesso all’intero Reich di mettersi sul piede di guerra. Per l’IBM iniziò un periodo di grande prosperità».
Fra i maggiori clienti della Dehomag c’erano le ferrovie tedesche: «ogni anno circa centoquaranta milioni di passeggeri prenotavano il posto mediante i sistemi di selezione delle schede prodotti dalla Dehomag». Durante la guerra, l’IBM fornì le sue apparecchiature a quasi tutte le ferrovie dell’Europa occupata. «I sistemi per schede perforate individuavano l’esatta posizione dei carri merci, il carico che potevano trasportare e gli orari che avrebbero dovuto rispettare per garantire la massima efficienza». Grazie a questo sistema, «le posizioni dei carri merci venivano aggiornate ogni quarantott’ore. Senza le apparecchiature, la localizzazione del materiale ferroviario sarebbe rimasta indietro di oltre due settimane».
Allo stesso modo, i sistemi Hollerith «consentivano al Reich di schierare strategicamente sia gli operai specializzati all’interno della Germania sia i gruppi di forzati e di schiavi importati dai paesi occupati», e venivano utilizzati in tutta l’Europa in guerra per la mobilitazione delle truppe e per gestire la produzione di materiale bellico.
I documenti raccolti da Black permettono di escludere qualsiasi giustificazione o attenuante per la complicità dell’IBM e dei suoi dirigenti con il regime nazista. L’azienda non si è infatti limitata a fornire i macchinari, ma, con il beneplacito della sede centrale di New York, ha dovuto personalizzare ogni applicazione e fornire continuo supporto: «i tecnici inviavano schede campione agli uffici del Reich finché le colonne dei dati risultavano accettabili, proprio come farebbe oggi un progettista di software. Le schede perforate potevano essere progettate, stampate e vendute da un’unica azienda: l’IBM. Le macchine non venivano vendute, bensì noleggiate, e venivano regolarmente sottoposte a migliorie e interventi di manutenzione da parte di un’unica azienda: l’IBM. Le filiali addestravano gli ufficiali nazisti e i loro rappresentanti in tutta l’Europa». Inoltre, le macchine dovevano essere «controllate in loco circa una volta al mese, anche quando si trovavano all’interno di un campo di concentramento o nelle sue vicinanze».
Per dodici anni, i funzionari dell’IBM New York «si recavano a Berlino o Ginevra per monitorare le attività e assicurarsi che la casa madre non venisse esclusa dai profitti o dalle opportunità commerciali offerte dal nazismo», e anche «quando le leggi statunitensi dichiararono illegali simili contatti diretti, la sede svizzera dell’IBM divenne il fulcro dell’intero processo e garantì all’ufficio di New York un flusso continuo di informazioni e una facciata rispettabile».
In dodici anni, nessuna delle – più che esplicite – dichiarazioni della gerarchia nazista spinse l’IBM a pronunciare una sola parola che rischiasse di limitare le attività – e i profitti – della sua filiale tedesca. Tantomeno a ritirarsi dalla collaborazione con il Reich – cosa che avrebbe inferto un duro colpo alla macchina nazista: al regime infatti sarebbero serviti anni per rimpiazzare l’IBM nella produzione delle macchine e delle schede, con gravi conseguenze sulla capacità di pianificare e condurre la guerra.
Il peso dei mezzi forniti dall’IBM nel compimento dello sterminio è ben esemplificato dal confronto fra il destino degli ebrei in Olanda, «un bastione dell’infrastruttura delle Hollerith», e in Francia, dove «i nazisti erano costretti ad affidarsi ai loro rastrellamenti a casaccio» perché l’infrastruttura di perforazione delle schede «era un disastro assoluto»: «dei 140.000 ebrei olandesi schedati, più di 107.000 furono deportati e di questi 102.000 furono uccisi – un tasso di mortalità di circa il settantatré per cento. Dei circa 300.000-350.000 ebrei che, secondo le stime, vivevano in Francia in entrambe le zone, ne furono deportati circa 85.000 e di questi ne sopravvissero a stento 3000. Il tasso di mortalità in Francia fu di circa il venticinque per cento».
Perché un’azienda come l’IBM ha scientemente fornito a un regime come quello nazista i mezzi per «raggiungere un obiettivo mai realizzato in precedenza: l’automazione della distruzione umana»? Condivisibili le considerazioni di Edwin Black: «all’IBM non interessava il nazismo e tanto meno l’antisemitismo». «Egocentrica e abbagliata dal suo stesso vortice di possibilità tecniche, l’IBM agiva obbedendo a un’immorale filosofia aziendale: se possiamo farlo, dobbiamo farlo». L’ennesima dimostrazione che i crimini nazisti sono stati tutt’altro che una parentesi di irrazionalità ma, al contrario, la moderna razionalità tecnica portata alle sue estreme conseguenze[23].
Se il contributo dell’IBM era indispensabile per lo sforzo bellico nazista, anche gli Alleati non potevano fare a meno della tecnologia dell’azienda: «in un certo senso l’IBM era più grande della guerra». Il dipartimento della Guerra statunitense discusse «con Watson di convertire la capacità produttiva dell’IBM per metterla al servizio dell’impresa bellica». «Nel 1943 due terzi dell’intera capacità di produzione dell’IBM erano stati spostati dalle tabulatrici alle munizioni». Oltre alla produzione di armi, l’IBM intraprese diversi progetti di ricerca per l’esercito americano, incredibilmente coordinati dallo stesso funzionario responsabile delle operazioni dell’azienda nell’Europa nazista. E le macchine Hollerith servirono per organizzare la mobilitazione di milioni di soldati. Anche sul lato americano del fronte, gli introiti per l’IBM furono enormi, mentre Watson ripuliva la propria immagine cogliendo «l’occasione di diventare il principale patriota tra gli industriali del paese».
L’azienda sviluppò anche potenti unità mobili Hollerith. «Le Machine Record Units (MRU) non erano altro che unità militari addestrate dall’IBM e specializzate nello spiegamento delle attrezzature prodotte dall’IBM. Erano anche progettate per contribuire alla cattura di qualsiasi Hollerith venisse scoperta in Europa o nel teatro del Pacifico», dato che si trattava di «macchine strategiche da salvaguardare e non da distruggere»: «la dotazione della Dehomag era la chiave di un’agevole occupazione militare della Germania e di altri territori dell’Asse».
Quando l’8 maggio 1945 la guerra finì in Europa, l’IBM «si precipitò a recuperare le sue macchine e i suoi conti bancari nel territorio nemico». La Dehomag era uscita «dagli anni del conflitto con danni relativamente esigui e, in pratica, pronta a riprendere una normale attività. Le macchine erano state recuperate, i profitti salvaguardati e il valore societario intatto. Di conseguenza alla fine della guerra l’IBM di New York fu in grado di riprendersi la sua filiale tedesca problematica ma fruttuosa, insieme con le sue macchine e tutti i suoi proventi».
Quando i campi di concentramento erano stati abbandonati, le macchine erano state trasferite in gran parte in località insospettabili, e gli archivi distrutti per cancellare ogni traccia dei crimini di guerra. Questo contribuì a rendere l’IBM e la sua filiale tedesca immuni da qualsiasi accusa. Macchine come «quelle di Auschwitz, Buchenwald, Westerbork e del ghetto di Varsavia furono semplicemente recuperate e riassorbite nell’elenco delle proprietà dell’IBM. Sarebbero state impiegate un altro giorno, in un altro modo, per un altro cliente. Non dovette fornire spiegazioni o risposte. Domande sulle Hollerith di Hitler non furono mai nemmeno formulate». Ironicamente, però, nel processo di Norimberga l’IBM un ruolo lo ebbe: per far fronte alla difficoltà di tradurre tutti i documenti, i giudici fecero ricorso «a una procedura appena inventata chiamata “traduzione simultanea”. Una società esaminò tutte le prove presentate e le tradusse non solo per l’uso in tempo reale e per le procedure processuali, ma anche per la posterità. Questa società era l’International Business Machines Corporation». Watson offrì i servigi della società gratuitamente.
Come se tutto questo non bastasse, dalle macchine Hollerith e dagli operatori della Dehomag dipendeva anche l’ufficio statunitense segreto di analisi statistica incaricato di valutare gli effetti – anche morali – dei bombardamenti alleati sulla Germania. Le analisi e le previsioni di questo ufficio fecero parte del processo decisionale che portò a sganciare le due bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki.
Com’è noto, «negli anni successivi l’IBM acquisì una statura mondiale ancor maggiore e divenne un faro della causa del progresso. Adottò un motto aziendale: “La società delle soluzioni”. Ovunque ci fosse un compito impossibile, l’IBM avrebbe trovato la soluzione».
Questo testo è stato originariamente pubblicato su bergteufelbz.noblogs.org nel giugno 2025.
[23] Su questi temi si consiglia la lettura di Zygmunt Bauman, Modernità e Olocausto, Il Mulino, 2010, e di Johann Chapoutot, Nazismo e management. Liberi di obbedire, Einaudi, 2021.