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Maquinas locas

Benché non siano mancati potenti lampi contro il macchinismo già nell’Ottocento – grazie ai gatti selvaggi nelle città e ai galli rossi nelle campagne –, si può dire che la radicale messa in discussione della pretesa neutralità della tecnologia si sviluppi soprattutto a partire dagli anni Trenta del Novecento. Più l’apparato tecno-industriale comincia a sprofondare nell’irreversibilità di ciò che produce – si pensi alle radiazioni nucleari e alle manipolazioni genetiche –, più diventa insostenibile la prospettiva di un suo uso altro, liberato, sociale. Ciò che è irreversibile e «sovraliminare» (capace, cioè, di effetti troppo smisurati per essere còlti dalla coscienza) non permette alcun impiego alternativo, il quale presuppone possibilità di scelta e piena assunzione delle conseguenze del proprio agire. Quando le scorie di una tecnologia estendono la propria ombra su centinaia di migliaia di anni, chi può assumerne la responsabilità? Coloro i quali continuano a dormire nella sonnolenza del «dipende dall’uso che se ne fa» sono costretti a sognare i sogni dei loro padroni.
Se questo appare cristallino nell’epoca delle «tecnologie convergenti» (bio, nano, info e neuro), il «bilancio costi-benefici» è decisamente in rosso per la parte oppressa dell’umanità anche rispetto a infrastrutture tecniche dall’aria molto più innocente. Prendiamo il sistema ferroviario. Certo, lo possiamo usare per andare alle manifestazioni, per viaggiare o per i nostri incontri sovversivi. Ma se nel computo complessivo inseriamo la violenza con cui è stato costruito, l’energia produttiva e bellica che ne ha ricavato il capitalismo, l’uso decisivo che ne hanno fatto gli Stati nelle più immani tragedie della storia, si può davvero affermare che il sistema ferroviario, a oltre due secoli dalla sua inaugurazione, sia stato socialmente riscattato? Simbolo stesso del Progresso (con la rivoluzione come «locomotiva della storia»…), consustanziale alle imprese coloniali, alla fabbrica e alla guerra moderna, attraverso il treno possiamo leggere l’intera storia dei movimenti rivoluzionari. L’apice dei moti insurrezionali è coinciso quasi ovunque con una vasta opera di blocco delle ferrovie per fermare le truppe statali e la produzione capitalistica. Uno dei pochi usi rovesciati di locomotive e vagoni si è realizzato durante la rivoluzione messicana del 1911. Uso rovesciato in tre sensi: come vendetta – sotto forma di incendio e sabotaggio – per tutti i territori espropriati agli indigeni allo scopo di costruire le linee ferroviarie; come mezzo impiegato dai ribelli per trasportare armi e cibo – le locomotive trasformate in maquinas locas; come infrastruttura sociale alternativa (nei territori liberati, i vagoni diventavano uffici di coordinamento, depositi di viveri e ospedali). Infatti, mai come nel Messico di quegli anni i giornali della borghesia hanno vomitato tanto orrore e tanto ribrezzo di fronte al simbolo del Progresso profanato da un tale uso (i maiali e le galline che scorrazzano nei vagoni! I poveri e gli analfabeti che giocano e ridono nelle carrozze di prima classe!).
Quelle maquinas locas sono tra i pochi contrappesi e riscatti nella guerra condotta dai ricchi contro i poveri, dall’autorità contro la libertà. Per il resto, «la ferrovia davanti e la rovina dietro, cioè il capitale come battistrada e il capitale come pugnalatore alle spalle» (Rosa Luxemburg).

 

Come battistrada. «È lo schiavo che costituisce le compagnie di lavoratori. E qui ne ha per almeno due anni. È lui che scava il canale di Sotuba. Lui che ha fatto e continua a fare le ferrovie del Senegal, del Sudan, della Guinea, della Costa d’Avorio, del Togo, del Dahomey. Del Congo! […] È lo schiavo che, per giorni, percorre in lungo e in largo la savana, trenta chili di manioca come carico, tallonato dalle mogli e dai figli, penoso seguito, per approvvigionare i cantieri della civiltà!  […] Date loro dei camion e dei rulli a vapore! Ecco mille negri in fila indiana, equipaggiamento sulla testa, che se ne vanno alla macchina! Alla ferrovia della Costa d’Avorio, a Tafiré. Settecento chilometri. I viveri? Si troveranno per strada, se piace a Dio! La carovana ci metterà un mese per raggiungere il cantiere. Com’è docile il passo degli schiavi! Alcuni uomini resteranno per strada, ma ci si stringerà rapidamente; si ricompatterà la fila. Si potrebbe trasportarli con dei camion; si guadagnerebbero venti giorni, sicuramente venti vite. Comprare dei camion? Logorare degli pneumatici? Bruciare della benzina? La cassa di riserva dimagrirebbe! Il negro è pur sempre sufficientemente grasso!» (Albert Londres, Terra d’ebano, 1929).

 

Come pugnalatore alle spalle. «Il treno. Da qualche parte, Aldous Huxley, parlando dell’anima umana nel suo periodo di immaturità, l’ha definita “naturaliter ferrovialis”: e se penso ai miei ricordi d’infanzia, devo dire che aveva ragione; il bambino è ferroviario per natura, è un adoratore dei treni. Per anni, ho sentito in me una singolare emozione nel vedere entrare in stazione questi colossi poderosi: era ogni volta uno spettacolo meraviglioso. […] Tale era l’inverosimile minuscolo individuo che io devo essere stato; ma adesso sono maturato […], e non mi sento più ferroviario, né tale mi sentirò mai più. Infatti, in questo campo il treno per me è diventato il simbolo dell’infelicità e del dolore, della morte, dell’essenza stessa del Male. E il Male ho imparato a odiarlo.
[…] Il treno, il treno. Arriva e parte; ma più insopportabile dei suoi arrivi e delle sue partenze è la sua regolarità. Che soffi la tempesta, o nevichi, o grandini, il treno parte. Nessun allarme aereo lo ferma: il treno parte. I nostri alleati riducono in polvere interi nodi ferroviari, macinano ponti e tettoie, officine di riparazione, materiale rotabile: ma il treno parte. Ad Amsterdam hanno scioperato contro la deportazione di qualche centinaio di ebrei, ma il treno ne porta via di qui migliaia e migliaia, senza sosta, e tutti fanno il loro lavoro e nessuno dice no; non una traversina viene asportata, non una vite allentata» (Jacob Presser, La notte dei Girondini, 1975).

 

Come vendicare simili orrori? Tutta la violenza rivoluzionaria del mondo non basterebbe quale contrappeso. Forma di giustizia minima e necessaria è togliere ai treni ogni aria di innocenza. Ci avvicineremo a qualcosa che assomigli a un riscatto solo asportando tante traversine e allentando tante viti fino a far deragliare la locomotiva della storia. Sapremo di essere a buon punto quando i padroni del mondo torneranno a inorridire per le maquinas locas di Terra e Libertà.