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Terra e libertà

«Per quanto riguarda le nostre comunità, esse sono irrimediabilmente e sconsolatamente dipendenti, proprio come noi esseri umani, salvo quella piccola parte di persone, in costante diminuzione, ancora impegnate in agricoltura, anche se persino loro sono schiavi dei mutui. Tra le nostre città, probabilmente non ne esiste una che resisterebbe una settimana con la propria forza e nessuna riuscirebbe a evitare la più disperata bancarotta se fosse costretta ad autoprodursi il cibo. In risposta a questa condizione e alla correlata politica, l’anarchismo sostiene un’economia della sussistenza, la disintegrazione delle grandi comunità e il riutilizzo della terra». Così scriveva su «Mother Earth», nel lontano 1909, l’anarchica americana Voltairine del Cleyre (in L’anarchismo e le tradizioni americane). Sono parole di sorprendente attualità, che confermano quanto gli spiriti meno incantati dalle sirene dell’industrialismo avessero còlto con largo anticipo la tendenza del capitale a sradicare ogni forma di autonomia materiale dalla vita individuale e collettiva. Oggi, che gli agglomerati urbani hanno raggiunto dimensioni letteralmente smisurate e la stessa agricoltura è sempre più un ramo dell’industria (e dell’ingegneria genetica), la «disintegrazione delle grandi comunità» è uno degli obiettivi primari che si deve porre un movimento rivoluzionario. Quando un’esigua minoranza, in costante diminuzione e sempre più dipendente dall’Apparato, è incaricata di sfamare il resto della popolazione, la meccanizzazione e l’artificializzazione dei processi di produzione del cibo sono tendenze tanto rovinose quanto inevitabili, a loro volta foriere di devastazioni ecologiche sempre più gravi. Negli Stati Uniti, da un decennio abbondante, il numero dei detenuti ha superato quello dei contadini. In compenso, all’agribusiness si sono aggiunti i colossi dell’informatica e della logistica, come Microsoft e Amazon, i quali puntano simultaneamente a rendere hors sol la specie umana e ad accaparrarsi distese sempre più gigantesche di campi coltivabili.
Tutto ciò che il sistema tecno-mercantile ci sottrae da sotto i piedi si accumula, secondo gli imperativi dell’estensione quantitativa e qualitativa, verso un cielo di sciagure pronto a rovesciarsi sulla Terra. Ora, non solo la pretesa di rendere «ecologico» un sistema produttivo ormai incontrollabile è paragonabile al proposito di «mettere ordine in un porcile», ma la «seminfermità sovraequipaggiata» su cui esso si basa può essere spezzata a condizione di cogliere su quale scala i problemi possono essere affrontati e risolti. Attribuire all’immaginazione, alla sensibilità e al senso di responsabilità degli individui una portata illimitata (a misura del mondo, della Terra, dell’universo…) è infatti l’altra faccia di un ordine sociale che incarcera le nostre vite in un orizzonte etico-immaginativo chiuso. L’universale concreto da cui ogni «difesa della Terra» non menzognera deve partire è che gli umani possono prendersi cura di ciò che fa parte della loro esperienza diretta, e tenuti responsabili per ciò che rientra realmente nella loro sfera d’azione. Il resto è moralismo impartito agli schiavi per deresponsabilizzare i loro padroni. Non è certo un caso che le cosmovisioni di tutte le comunità terrestri, a differenza dei precetti morali di quelle hors sol, contengano modi d’uso determinati di ecosistemi determinati, non ricette buone per tutto il Pianeta e per tutte le stagioni.
Un esempio terra-terra: ad infischiarsene sia dei piani di razionamento del gas del tecnocrate Cingolani sia dei grotteschi consigli del premio Nobel Parisi, sono oggi coloro che si scaldano e cucinano con i mezzi meno moderni: la stufa a legna e la cucina economica. Mezzi nati e sopravvissuti (nonostante, ad esempio, le normative «green» europee volte a vietare ai pastori di fare il formaggio col fuoco a legna) nelle comunità montane o premontane; mezzi disastrosi per i boschi e per l’aria se applicati su grande scala.
Dal momento che ogni attività sociale dissipa energia e consuma risorse naturali, solo un modo di vivere che vede, sente e tocca i propri limiti ambientali può evitare di crollarci sotto illudendosi di abolirli. L’universale vivente non può consistere nella pianificazione mondiale o continentale o anche solo nazionale per rispettare i «limiti dello sviluppo», bensì nella libera federazione di comunità locali, cioè di mondi umani che hanno davvero luogo. In senso «ecologico» non meno che «politico», la rivoluzione sarà comunalista o non sarà.
Non c’è senso del limite senza libertà individuale e collettiva. Non si dà alcun assalto rivoluzionario al cielo senza un movimento che ci faccia toccare terra.