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Appello ai colibrì. Contro i nuovi OGM e l’agricoltura 4.0

La versione a stampa dell’opuscolo che segue può essere ordinata al nostro indirizzo terraeliberta@inventati.org al prezzo di 1 euro a copia (spese di spedizione incluse).

Qui la versione impaginata, scaricabile:  Colibri

Appello ai colibrì

Contro i nuovi OGM e l’agricoltura 4.0

Premessa

In questo opuscolo sono raccolti due testi. Il primo è scritto da noi, mentre il secondo è tratto da Reprendre la terre aux machines. Manifeste pour une autonomie paysanne et alimentaire de L’Atelier Paysan (Seuil, Parigi, 2021).

Il primo testo affronta soprattutto i nuovi OGM (chiamati eufemisticamente Tecniche di Evoluzione Assistita), mentre il secondo è più incentrato sulla digitalizzazione delle campagne; il primo osserva il territorio italiano (e trentino), mentre il secondo parte dal contesto francese. Ma le questioni in essi abbordate si intrecciano di continuo. D’altronde, se persino nella falsa parola dei tecnocrati le «tecnologie che spossessano» si chiamano convergenti un motivo c’è: intelligenza artificiale, Internet delle cose, robotica, nano- e bio-tecnologie si abbattono insieme sul mondo. Ora è il turno delle campagne, dove si vuole sostituire con dei tecnici quel che resta dei contadini. Soltanto in una società alla deriva servono molte parole per sottolineare la posta in gioco etica e politica: affidare la produzione del cibo ai laboratori e a macchinari che non controlliamo ma che ci controllano, significa rinunciare a ogni autonomia e a ogni libertà.

Sembra passato molto tempo dai dibattiti e dalle battaglie contro gli OGM tra la fine degli anni Novanta e gli inizi dei Duemila – e risulterà utile anche per questo il rapido bilancio di quelle campagne di lotta che ne traccia L’Atelier Paysan. Eppure qualcosa è rimasto conficcato tra le fauci del moloch tecno-industriale se esso ha dovuto tenere sostanzialmente nascosto il blitz con cui ha autorizzato la sperimentazione in campo aperto dei nuovi OGM. Diffondere il necessario senso critico verso tale Blitzkrieg è solo il primo passo per rompere il silenzio e trovare compagne e compagni di lotta (e di vita).

La scommessa è che, dentro la più generale incarcerazione tecnologica dell’umanità, l’assalto tecno-industriale alle campagne e al vivente possa costituire un cortocircuito per la Macchina e una breccia per noi. L’accelerazione tecnocratica è tale che negli ultimi anni una parte sorprendente (in tutti i sensi) della società si è svegliata. Effettivamente, di Emergenza in Emergenza, la gragnuola di colpi è stata senza fiato. I necrotecnologi sono convinti che il tempo dell’accettazione sociale verso la campagna dei robot e dell’ingegneria genetica sia ormai maturo? Che torni il tempo degli zoccoli (sabots) e delle falciature!

Alle umane e agli umani disposti a battersi. Da perdere non abbiamo che le nostre catene di silicio.

Rovereto, giugno 2023

Collettivo Terra e Libertà

La tecnoscienza all’assalto del vivente

L’agricoltura si fa industria

L’agricoltura industriale affermatasi a partire dagli anni ’50 ha trasformato l’ambiente agrario a immagine del settore industriale, imponendo una visione semplificatrice di input e output al posto dell’idea di equilibrio tra gli esseri viventi che compongono la madre Terra.

Alla complessità della fertilità del suolo si è imposta la gestione dei nutrienti chimici, con il suolo, da ambiente ricco di biodiversità, ridotto a mero supporto fisico.

Il cibo viene così considerato come una delle tante merci da fabbricare con l’apporto di grandi quantitativi di prodotti di sintesi che legano indissolubilmente l’agricoltura ai combustibili fossili. La chimica, come parte integrante dell’agricoltura (non è un caso che le grandi multinazionali si occupino di agricoltura, chimica e salute), ha aumentato la produzione delle colture, ma ne ha allo stesso tempo manifestato l’insostenibilità. Erbicidi, insetticidi, fungicidi e fertilizzanti sono solo alcuni dei più noti prodotti che l’industria ha distribuito massicciamente partendo dalla fine della Seconda Guerra mondiale (1). I prodotti della terra, non più ottenuti con la ricchezza dei suoli originati dalla disgregazione delle rocce e dall’attività dei microrganismi, bensì con sali minerali sintetici (soprattutto azoto, potassio e fosforo), perdono di conseguenza le loro qualità. Tanto più il cibo viene prodotto dall’innovazione capitalistica, allontanandosi di fatto dalla natura e dal lavoro dei contadini, tanto più diventa scadente. Una perdita di qualità che si affianca a quella di varietà (dal 1900 ad oggi, il 75% della diversità genetica delle piante coltivate si è persa, sostituite da varietà uniformi) (2). Sempre meno alimenti risultano essere il cibo base per l’umanità. Le crisi ambientale e alimentare, oltre ad essere fortemente intrecciate tra loro, trovano nell’odierna agricoltura non una soluzione ma una delle cause. Le pratiche intensive hanno degradato i suoli riducendo la sostanza organica e quindi la capacità naturale di trattenerne l’umidità e aumentando l’erosione (3). L’estensione delle monocolture ha favorito la diffusione di parassiti, piante spontanee che l’utilizzo di crescenti dosi di biocidi ha reso sempre più resistenti. L’ambiente semplificato e privato della sua complessità ecologica diventa così più vulnerabile agli stravolgimenti climatici e all’arrivo di nuove specie ad essi collegate.

L’ambiente agrario con i suoi elementi di biodiversità, frutto di diverse tecniche agricole millenarie e del lavoro di comunità rurali, è stato via via soppiantato da estese monocolture e dalla meccanizzazione che ha tolto dal campo ogni ostacolo presente, dalle siepi ai boschetti, dai muretti a secco ai contadini. La trasformazione capitalistica dell’agricoltura ha portato allo sviluppo di grandi fattorie e alla separazione dei mezzi di sussistenza dagli uomini e donne che, se non resi schiavi della terra, sono stati ridotti a meri braccianti o costretti ad emigrare. Un processo, quello dell’accorpamento tra aziende, che si sta affermando anche in Trentino ma che in altre parti del mondo è già una tremenda realtà.

Dalla zappa ai camici bianchi

L’applicazione dell’ingegneria genetica all’agricoltura è un ulteriore passo in avanti.

L’argomento più diffuso, tanto tra i genetisti quanto da parte delle multinazionali biotech, per giustificare l’utilizzo delle biotecnologie agrarie è che l’alterazione dei genomi delle piante attraverso l’ingegneria genetica sarebbe semplicemente la continuazione di ciò che l’essere umano ha sempre fatto fin dai tempi del Neolitico, con il valore aggiunto delle affascinanti scoperte biotecnologiche attuali.

«L’uomo nella sua esistenza da 12.000 anni ha addomesticato le piante e le ha accompagnate nell’evoluzione. Lo ha fatto in molti modi, soprattutto incrociandole, selezionandole, prelevando di volta in volta le piante giuste, […] perché avevano i caratteri di interesse, e oggi ha una grande possibilità che è quella di assistere l’evoluzione attraverso una nuova tecnica molecolare […]» spiega Mario Pezzotti, dirigente del Centro Ricerca della Fondazione Edmund Mach (4).

Falso. L’unica reale continuità è con l’agricoltura industriale che di fatto ha nel suo DNA la spoliazione dei beni comuni e delle capacità di autorganizzarsi delle civiltà contadine, sfruttando al contempo la terra e il lavoratore. Le biotecnologie agrarie amplificano queste caratteristiche perfezionandole e rendendole tanto imprevedibili quanto irreversibili (si pensi solo alla possibilità di incrocio con altre varietà non GM). Non c’è nulla di più lontano dall’approccio e dalla specializzazione dell’élite tecno-scientifica di quel processo libero e collettivo di selezione locale delle varietà agricole che avveniva nelle campagne prima dell’avvento dell’agricoltura industriale.

Un paradigma riduzionista

Il paradigma riduzionista che caratterizza alcuni ambiti della Scienza Moderna si basa su di una “concezione da Lego”, secondo la quale un fenomeno complesso può esser compreso nella sua interezza analizzando e sommando le sue singole parti senza tener conto delle proprietà che derivano dall’insieme. Questa visione meccanicistica, che concepisce il vivente come una macchina, non può essere applicata ai sistemi complessi quali sono gli organismi viventi. È in questo orizzonte che si muove l’innovazione tecnologica genetica. Un esempio: l’inserimento artificiale di un gene all’interno del genoma è un’operazione che considera le funzioni di quel gene autonome e a sé stanti rispetto alle relazioni che vi sono tra i geni e tra questi e l’ambiente, nonostante siano queste relazioni a formare le caratteristiche di un organismo. Gli esseri viventi non possono essere ridotti ad una somma di geni. Infatti ogni specie è caratterizzata da un’enorme diversità che solo in minima parte può essere descritta dai geni. Il determinismo genetico sfocia nel semplicismo. E non va dimenticato che la maggior parte dei genetisti considera utile solamente una piccola percentuale del genoma (intorno all’1,5-2%) per svolgere delle funzioni. Il restante 98% è definito “DNA spazzatura”, ovvero trascurabile. Questo è l’approccio dei tecnici della manipolazione: adeguare il sistema vivente alla loro idea di mondo, trasformando il pianeta Terra stesso in un laboratorio. Questa tendenza avviene senza porsi limiti etico-sociali, in una spirale che porta all’applicazione di tutto ciò che è tecnicamente possibile, con una potenza distruttiva mai raggiunta prima. Per questo non è possibile definire la Scienza neutrale e al di sopra delle parti.

OGM, NGT, TEA: nomi diversi per la stessa nocività

Con il progetto BIOTECH (5) il Parlamento italiano ha stanziato 6 milioni di euro dal 2018 al 2021 per lo sviluppo dei nuovi OGM in Italia. Il finanziamento è stato diretto dal CREA (Consiglio per la ricerca in Agricoltura e l’Analisi dell’Economia Agraria – il più importante centro di ricerca pubblico italiano nel campo agroalimentare) che ha poi aperto la partecipazione ad altri centri di ricerca distribuiti su tutto il territorio nazionale, compresa la Fondazione Edmund Mach di San Michele all’Adige (FEM o FMACH), con l’intento di sviluppare tali competenze per le maggiori varietà coltivate in Italia. Il cuore del progetto nazionale ha riguardato la ricerca nel «miglioramento genetico» con le nuove tecnologie cosiddette TEA (ovvero Tecnologie di Evoluzione Assistita), fabbricando una quindicina di nuove piante. Con TEA ci si riferisce a quegli organismi modificati geneticamente aggiungendo geni prelevati dalla stessa specie o da specie affini (cisgenesi) oppure modificando la sequenza di un gene potendolo anche “silenziare” (editing genetico).

Non solo. Il progetto ha avuto come obiettivo anche la diffusione della cultura della modificazione genetica in Italia. Per questo sono stati coinvolti il mondo scientifico, la politica, gli studenti, i giornalisti, organizzando più di 40 «eventi», dibattiti, pubblicazioni su riviste di divulgazione scientifica, alla conquista dei cuori e delle menti della popolazione.

Non è quindi un caso che la Società italiana di genetica agraria (SIGA) abbia deciso di chiamare TEA quelle che nel resto del mondo sono chiamate «nuove tecniche di breeding» o «nuove tecniche genomiche». Un linguaggio che cerca di mascherare ciò che deve essere accettato dalla cosiddetta opinione pubblica. Non è un caso nemmeno che Luca De Carlo, presidente della Commissione agricoltura al Senato, abbia dichiarato: «Ora dobbiamo far comprendere all’opinione pubblica che le TEA non sono Ogm». La propaganda dice: gli organismi geneticamente modificati creati con la transgenesi, ovvero con il trasferimento di geni tra specie diverse, sono altra cosa da quelli basati sulla cisgenesi o sull’editing genetico.

In realtà non esiste alcuna differenza tra OGM creati con la transgenesi, la cisgenesi o con l’editing genetico (ovvero con le cosiddette “forbici molecolari” che permettono di intervenire con precisione – in realtà molti studi dicono proprio il contrario (6) – sul DNA). OGM, TEA o NBT: di fatto di alterazione o modificazione del DNA delle piante si tratta. Usare il termine OGM vorrebbe dire risollevare una questione che in anni passati ha creato una mobilitazione ampia e partecipata che ha permesso di evitare fino ad ora la coltivazione di questi organismi in Italia. Nonostante ciò, in questi anni gli OGM non sono mai spariti veramente: ne sono un esempio i mangimi utilizzati per il bestiame e tutti i cibi che da regolamento devono indicare in etichetta la presenza di OGM solamente se la percentuale è superiore allo 0,9. Ed è per questo che la regolamentazione europea basata sul principio di precauzione non è stata e non sarà sufficiente. Gli OGM sono una nocività sociale ed ecologica e per questo vanno combattuti, non regolamentati.

Le sperimentazioni in laboratorio non si sono mai fermate, ma adesso i biotecnologi hanno la necessità di uscire dai laboratori perché solamente in campo aperto le varietà modificate potranno essere “valutate”. Fino a poco tempo fa non era consentita la sperimentazione di OGM all’aperto, ma il progetto BIOTECH ha dimostrato quanto l’intreccio tra la ricerca (pubblica e privata), la politica e gli interessi industriali abbia contribuito a sviluppare le ricerche sulle biotecnologie “verdi”. Mancava solo il passo della politica. Ed è ciò che è stato ottenuto con l’emendamento al Decreto Siccità approvato il 30 maggio scorso, grazie al quale, con un vero e proprio blitz (termine usato da Raffaele Nevi, promotore di Forza Italia di un disegno di legge in materia) e nella ormai assodata logica emergenziale, si è dato il via alla sperimentazione all’aperto dei nuovi OGM in Italia. Operazione che ha trovato il plauso di tutti i sindacati agricoli (Coldiretti, critica nei confronti della carne sintetica ma a favore della modificazione genetica (7), Confagricoltura e CIA), le associazioni dei sementieri (Assosementi) e dei chimici (Federchimica). Questo porterà alla vera e propria prova in campo delle varietà geneticamente modificate con il conseguente inquinamento genetico delle altre colture. Intanto, il 5 luglio scorso, la Commissione europea ha proposto di «esentare le nuove biotecnologie dalle regole su etichettatura, tracciabilità e valutazione del rischio previste dalla direttiva sugli OGM» (8). Tradotto: i nuovi OGM non vanno considerati tali a livello normativo, aprendo così la strada alla loro coltivazione vera e propria (non solo a fini sperimentali).

La biodiversità come terra di conquista

Gli organismi geneticamente modificati sono il frutto di una specializzazione tecno-scientifica che ha un obiettivo ben preciso: privatizzare le piante per poterle lanciare sul mercato. Il tecno-scienziato interviene sui meccanismi più profondi e delicati della natura per poterli piegare ai propri scopi e trarne profitto. Il vivente, da libero e di tutti, diventa luogo di conquista per pochi istituti di ricerca e grandi multinazionali. La logica dei brevetti spinge verso la produzione artificiale del vivente, la quale estende a sua volta la sfera di ciò che è brevettabile (9). Come dice Luigi Cattivelli, direttore del CREA (sezione Genomica e Bioinformatica): «Il fattore limitante tra qualche anno sarà il brevetto dei geni da usare per fare le TEA» (10). All’interno della competizione internazionale, sono questi i veri interessi che emergono. Sviluppare e scoprire nuove tecnologie per arrivare primi. E l’accaparramento della biodiversità agricola è la nuova frontiera di conquista per la predisposizione di nuove varietà brevettabili. Inoltre il sistema di Digital Sequence Information (DSI), ovvero il trasferimento digitale di sequenze di informazioni genetiche relative ai semi, permette la produzione di nuove varietà senza lo scambio fisico di materiale biologico. La sequenza genica non necessita più che la pianta sia sottratta dal Paese depositario, ma può essere scansionata sul posto. La sequenza così ottenuta è caricata sul web e, attraverso dei sintetizzatori di DNA, può esser ricomposta in qualsiasi altro luogo (11). Con queste tecnologie ubiquitarie la biopirateria si smaterializza e il controllo della vita passa anche attraverso il colonialismo digitale.

I veri interessi

In risposta alle crisi climatiche, economiche, legate alla guerra e quindi alle forniture di derrate alimentari, si dà l’illusione che le soluzioni tecniche possano rimuovere i problemi di natura politica e sociale. La soluzione alla fame nel mondo, la risposta ai cambiamenti climatici, la riduzione dell’impiego di insetticidi sono solo alcune delle menzogne che vengono utilizzate per rinverdire un’innovazione tecnologica che appartiene al modo di produzione capitalistico. Ieri con le sementi ibride e i “vecchi” OGM, oggi con le TEA.

Per quanto riguarda la fame nel mondo, gli OGM, da quando si sono affermati a livello globale, hanno contribuito a costruire socialmente la miseria aumentando il potere delle multinazionali (nel 2018 le grandi multinazionali dell’agritech sono passate da sei a quattro e controllano il 62% della vendita di sementi (12)). Del resto non poteva che andare così. Le sementi ibride prima e gli OGM oggi sono subordinati ai rapporti di forza politici ed economici.

Gli OGM, di vecchia o nuova generazione, sono destinati a vaste monocolture (altrimenti non si ricaverebbero profitti), le quali, oltre ad essere ecologicamente vulnerabili, possono esistere solo se supportate da enormi quantità di concimi e diserbanti ovvero dalla solita vecchia agricoltura estrattiva.

Oltre a ciò queste sementi sono colture biologicamente omogenee (ovvero varietà che al loro interno non presentano diversità genetica) e per questo motivo, anche se viene inserito il gene di «resistenza alla siccità», avranno scarse capacità di affrontare i cambiamenti climatici nel loro complesso. Contrariamente a quanto dice l’amministratore delegato di Syngenta, una delle quattro più grandi multinazionali agrochimiche e sementiere del Pianeta, secondo cui «di fronte alla minaccia di una crisi alimentare globale, è necessario rinunciare all’agricoltura biologica», è proprio la biodiversità agricola (ovvero quella sviluppata prima della «rivoluzione verde» (13)), evoluta in decine di migliaia di anni con una enorme variabilità genetica, che permette di far fronte agli imprevisti. Gli OGM tendono all’omogeneità mentre gli equilibri dinamici della Natura si mantengono solo se c’è diversità. Sono impostazioni diametralmente opposte. La prima porta alla sterilità della vita con i conseguenti disastri ambientali e sociali.

Agricoltura 4.0

Non dimentichiamo l’agricoltura 4.0, che, attraverso il progetto Agritech promosso dall’Università degli Studi di Napoli Federico II e dalla Fondazione Mach, ha istituito un Centro Nazionale per lo sviluppo delle nuove tecnologie in agricoltura. Progetto che durerà fino al 31 agosto 2025 e per cui verranno stanziati 350 milioni di euro (320 provenienti dal PNRR) in «tecnologie abilitanti» come l’intelligenza artificiale e le produzioni avanzate per promuovere l’agricoltura di precisione. Nello specifico la FEM «contribuirà al miglioramento delle produzioni attraverso il miglioramento genetico delle colture in risposta a nuove emergenze sanitarie, i cambiamenti climatici e gli stress correlati, ed esplorazione delle risorse genetiche disponibili per lo sviluppo di nuove varietà resilienti e adattabili ai cambiamenti». Non è difficile da credere dato che, contrariamente all’immagine da cartolina di un territorio alpino fatto di meleti, vigneti e paesaggi turistici, il Trentino è una delle Province a più alta intensità di start-up, per il ruolo che vi giocano alcune Fondazioni e per i cospicui finanziamenti pubblici alla ricerca tecno-industriale.

E questo dimostra come la tanto decantata ricerca pubblica non sia affatto diretta al bene collettivo ma anzi si ponga al servizio del potere fornendo nuovi strumenti di dominio che intensificheranno enormemente lo sfruttamento della Natura e la progressiva espulsione dei contadini dalla terra.

Un mondo e il suo rovescio

Ridurre il mondo vivente alla Scienza, alle analisi statistiche, ai dati elaborati in forma automatizzata, allontana l’essere umano dalla madre Terra, da quel piacere intrinseco per l’attività umana che è fatto di odori, sapori, vita vissuta a contatto con le altre specie e che nessun sistema tecnologico applicato alla Natura riuscirà mai a soddisfare. È proprio questo scollegamento dalla Terra, prima con l’avvento di trattori sempre più grandi e poi con l’informatica, che pone l’uomo-macchina a rivaleggiare con la Natura minando al contempo la facoltà di distinguere il giusto dall’ingiusto, ciò che libera le potenzialità umane da ciò che le imprigiona tecnologicamente. Si va così a perdere quella visione d’insieme che, a partire dalle relazioni tra il suolo, le piante e l’ambiente, ci colloca non in sostituzione dell’ecosistema ma come sua parte integrante: umani-nella-Natura. È pura illusione quella di acquisire attraverso tecnologie sempre più sofisticate una maggiore libertà. Ciò che stiamo “conquistando” è di diventare degli strumenti passivi e dipendenti dalla prossima innovazione. Se quello che vogliamo non è una biosfera artificiale, sempre più povera e addomesticata, dobbiamo cominciare a costruire un mondo che parta da altre basi, fermando la diffusione degli organismi geneticamente modificati.

C’è più che mai bisogno di no che aiutano a crescere. Sradicare le tecno-piante, prima che i loro programmatori sradichino ogni seme di autonomia.

[…] sarebbe altrettanto giusto parlare di morte naturale per i soldati uccisi sul campo di battaglia che attribuire a una evoluzione normale, volontaria da parte degli indigeni, l’estinzione delle ultime tracce delle comunità di villaggio. È vero che esse sono pressoché estinte in quasi tutte le contrade dell’Europa occidentale, ma ciò è accaduto perché i decreti e la forza bruta le hanno soppresse. Gli accaparratori delle terre – signori o mercanti che fossero – non dovettero far altro che appoggiarsi alle leggi che essi stessi avevano dettato allo Stato per annettere ai loro domini le parti migliori dei beni comuni, approfittandone nel contempo per distruggere fino all’ultima vestigia delle autonomie comunali.

Elisée Reclus, L’uomo e la terra, 1905

1) A seguito della Seconda Guerra Mondiale le grandi scorte di sostanze a base di nitrato di ammonio usate per scopi bellici vengono convertite per l’uso agricolo. La tecnologia ha spesso un uso duale e la chimica non fa eccezione. L’uso militare che si intreccia con quello civile vale tanto per il nitrato di ammonio impiegato come esplosivo e per i fertilizzanti quanto per i gas nervini usati anche come pesticidi. La potenza distruttiva contro gli umani è anche una guerra alla natura ed entrambe ampliano l’incolmabile distanza tra il tecnomondo e la vita.

2) Rapporto della FAO sullo stato delle risorse fitogenetiche per l’alimentazione e l’agricoltura, 2010.

3) La recente alluvione in Romagna è stata così distruttiva non solo per l’effetto dei cambiamenti climatici e la cementificazione, ma anche per le condizioni attuali dei suoli. Il passaggio dall’agricoltura contadina all’agricoltura industriale ha provocato un impoverimento della sostanza organica nella Pianura Padana dal 2-3% all’1%, valore che, oltre a portare i terreni verso la desertificazione, conferisce una minore capacità di ritenzione idrica. Le profonde e intensive lavorazioni del terreno permesse dal passaggio di grandi macchinari hanno contribuito a compattare il terreno impedendo l’assorbimento dell’acqua. Non solo. Le varietà selezionate dalle ditte sementiere hanno puntato solo sulle rese ad ettaro eliminando altre caratteristiche delle piante tra cui la maggiore biomassa, utile per l’aumento della sostanza organica nei suoli. Profetico ciò che scriveva Franco Cazzola nella sua Storia delle campagne padane dall’Ottocento a oggi (Bruno Mondadori, Milano, 1998) su quanto il mondo tecnologicamente fuori misura si riveli un mutamento rovinoso tanto delle attività umane quanto dell’ambiente agrario: «I potenti mezzi messi a disposizione dalla tecnica, per quanto avanzati possano essere, non riescono oggi a mantenere in vita o a ricostituire quel grande patrimonio collettivo di saperi della terra e dell’acqua, quella preordinata e quotidiana accumulazione di lavoro umano nella costruzione del paesaggio agrario che aveva fatto delle campagne padane, sia pure nel quadro di un permanente e lacerante conflitto sociale, uno dei punti più avanzati dello sviluppo agricolo europeo. Erano stati da sempre gli agricoltori, i mezzadri, e i miserabili braccianti della valle padana i più validi controllori del grande fiume e della straordinaria rete di acque che a esse affluiscono. Una volta venuta meno la loro vigile presenza, ossia nel momento in cui queste terre hanno cessato di essere campagna, la straordinaria artificialità dell’ambiente agrario padano può tradursi repentinamente in un grave pericolo per gli uomini e per le cose».

4) Dall’intervento a Rovereto durante il “Wired Next Fest”, il 7 maggio 2023, intitolato Una spinta all’evoluzione. Per una riflessione controcorrente su quel festival invitiamo alla lettura di alcuni testi: https://ilrovescio.info/2023/05/20/rovereto-una-domenica-tra-gli-umani-cablati/

5) Progetto «per un futuro migliore» di cui fanno parte, tra gli altri, Novartis, Sanofi, Genenta Science, Pfizer e AstraZeneca. Il cavallo di Troia per far passare l’ingegneria genetica come un dono nella città degli umani sono stati i vaccini biotecnologici. Questa la prima mossa: «Per sviluppare, autorizzare e rendere facilmente disponibili dei vaccini sicuri contro il Covid-19, il Parlamento ha adottato una deroga temporanea a certe regole sui test clinici. […] Certi vaccini o trattamenti contro il Covid-19 già in corso di sviluppo possono essere definiti come degli organismi geneticamente modificati (OGM) e sono quindi coperti dalle direttive europee in materia di OGM. […] una deroga a queste regole è necessaria per evitare ritardi significativi nella messa a punto di vaccini e di trattamenti in grado di salvare delle vite» (decisione adottata dal Parlamento europeo il 17 luglio 2020, in “deroga temporanea” alla direttiva 2001/18/ CE relativa alla disseminazione volontaria di organismi geneticamente modificati nell’ambiente e alla direttiva 2009/41/CE relativa all’utilizzo di microrganismi geneticamente modificati). Entrato il cavallo, la Commissione europea ha provveduto nei mesi successivi ad autorizzare l’importazione di nuove colture OGM (mais, soia, colza e cotone). Per quanto riguarda l’Italia, l’ultima mossa è stata ben camuffata dentro un emendamento al Decreto Siccità: i nuovi OGM si possono sperimentare in campo aperto. Mossa che a sua volta ha anticipato la proposta della Commissione europea (5 luglio 2023) di esentare le TEA dalla regolamentazione in materia di OGM.

6) Secondo una ricerca pubblicata su «Nature» nel 2017 (Unexpecteded mutations after CRISPR-Cas9 editing in vivo), l’inserimento di un gene con l’editing genetico ha indotto 1500 mutazioni e oltre 100 cancellazioni. Qui l’articolo: https://www.nature.com/articles/nmeth.4293.epd

7) Si fa riferimento alla raccolta firme contro la carne sintetica. Come dice Vandana Shiva, «nel momento in cui aprite le porte ai semi geneticamente modificati, il cibo artificiale è già arrivato. Le due istanze si contraddicono a vicenda» (https://www.pressenza.com/it/2023/06/vandana-shiva-sottoscrivo-lappello-per-il-ritiro-della-legge-che-sdogana-gli-ogm-in-italia/).

8) Cfr. https://www.ilfattoquotidiano.it/2023/07/05/commissione-ue-deregulation-nuovi-ogm-multinazionali-privatizzazione-biodiversita/7217743/; https://www.lindipendente.online/2023/07/06/la-corsa-delle-multinazionali-ai-nuovi-ogm-139-brevetti-presentati-in-europa/

9) La Commissione europea non aveva ancora proposto di escludere le TEA dalla regolamentazione in materia di OGM, che le quattro più grandi imprese agrochimiche e sementiere del mondo – Corteva, Bayer-Monsanto, BASF e ChemChina – avevano già richiesto 139 brevetti relativi alle nuove biotecnologie per l’editing genomico sulle piante, al fine di acquisire la proprietà esclusiva di varietà vegetali geneticamente modificate per vent’anni e rivenderle agli agricoltori. Le applicazioni risultano quasi tutte in mano al settore privato, che si impadronisce del frutto delle scoperte piu promettenti dei centri di ricerca, spesso pubblici. Tale sistema di vasi comunicanti lega in maniera indissolubile la ricerca pubblica con l’agribusiness e la brevettabilita del vivente. Si veda al riguardo: https://www.croceviaterra.it/wp/wp-content/uploads/2023/06/Report-NGT_Crocevia2023.pdf

10) In occasione del convegno organizzato dal CREA per presentare il position paper Nuove tecniche genomiche, genome editing e cisgenesi all’interno della giornata “Un’agricoltura produttiva, sostenibile e competitiva: il contributo della genetica vegetale avanzata”, avvenuta a Roma il 14 marzo 2023.

11) Paolo Groppo, La crisi agraria ed eco-genetica spiegata ai non specialisti, Meltemi, Milano, 2020.

12) Le “Big 4” sono le multinazionali Bayer (che ha acquisito Monsanto), ChemChina (che ha acquistato Syngenta), Corteva (nata da Dow Chemicals e DuPont) e BASF.

13) La «rivoluzione verde» ha portato un nuovo approccio all’agricoltura diretto soprattutto all’aumento della produzione. Tale cambiamento aveva anche una natura politica volta a espandere l’influenza degli Stati Uniti a livello internazionale. La prima volta che il termine «Rivoluzione Verde» venne utilizzato era il 1968, e fu pronunciato da William Gaud, l’allora direttore dell’USAID (l’Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo Internazionale): «Questi e altri sviluppi nel campo dell’agricoltura contengono i frutti di una nuova rivoluzione. Non è una violenta rivoluzione rossa come quella dei sovietici, né è una rivoluzione bianca come quella dello scià iraniano. La chiamo la Rivoluzione Verde» (cit. da Francesca Romano, La rivoluzione verde e il mito dell’aumento della produttività. Perché più cibo non ha significato più benessere. Tesi di laurea Magistrale, Università Ca’ Foscari, Venezia, 2018).

La fuga in avanti digitale e robotica

In questi ultimi anni, si sta delineando una nuova tappa dell’industrializzazione dell’agricoltura: sviluppo delle biotecnologie, promozione delle fattorie fuori-suolo, carne artificiale, accelerazione della robotica e lancio di un nuovo fiore all’occhiello nazionale: la French Tech agricola. Si tratta dell’agricoltura «4.0», quella che vuole accompagnare la quarta fase dello sviluppo di Internet, l’Internet delle Cose – le macchine e i prodotti dell’industria sono sempre più spesso in grado di comunicare tra loro. In ambito agricolo, il progetto è quello di installare ovunque dei sensori nelle fattorie, di utilizzare dei software e degli algoritmi d’intelligenza artificiale per automatizzare un insieme di mansioni (nutrire e curare gli animali, per esempio), di ricorrere a dei droni per seminare e polverizzare i prodotti fitosanitari o per valutare le condizione del suolo e i suoi bisogni di concime, di pilotare dei trattori a distanza con l’aiuto dei satelliti. Tutto ciò è interamente conforme all’attuale orientamento generale del mercato: accelerare lo sviluppo tecnologico, se possibile in nome dell’ecologia.

Così come la cosiddetta smart city pretende di essere una città più razionale che limita sprechi e inquinamenti urbani, un gran numero d’innovazioni robotiche in agricoltura sono presentate come delle soluzioni per razionalizzare l’uso di risorse rare o di fattori produttivi nocivi per l’ambiente. Il tal sistema di sensori deve permettere di calcolare in modo preciso il bisogno d’acqua delle colture e di limitarne quindi il consumo. Il tal sistema di telecamere e di analisi delle immagini deve permettere di individuare automaticamente le mucche che zoppicano e la gravità del problema su di una scala da 1 a 4; talaltro pretende di ottimizzare il nutrimento del bestiame e quindi il suo volume di deiezioni. Il tal robot promette un diserbo meccanico senza erbicidi (e senza mano d’opera), il tal drone promette l’ottimizzazione dell’uso di prodotti fitosanitari ecc. E questa propaganda nella maggior parte dei casi funziona: non solo i grandi media presentano gli attori della robotica agricola come sensibili all’ecologia, ma persino dei sostenitori dell’agroecologia, coscienti che l’agricoltura industriale trasforma la terra in un deserto, possono abboccare in tal senso. È il caso, per esempio, di Joëlle Zask, la quale, al termine di un passaggio sull’Antico Testamento e di un elogio del giardinaggio, promuove delle start-up israeliane impegnate in progetti dalle promesse prometeiche:

[…] dopo un lungo periodo di recessione, i kibbutzim ritrovano oggi un nuovo dinamismo, grazie alle ricerche scientifiche cooperative in agricoltura ecologica […]. Il kibbutz Ramata Hashofet, per esempio, ospita AutoAgronom, una società high tech promotrice di una tecnica «intelligente» che permette, tramite dei sensori fissati sulle radici, di ridurre del 70% l’uso di fertilizzanti e prodotti fitosanitari e del 50% l’irrigazione delle colture. Al kibbutz Megido si trova la società Agam Advanced Agronomy che inventa dei droni e dei satelliti capaci di osservare minuziosamente le colture e di identificare il loro bisogni (1).

La contraddizione è totale, l’impostura immensa. La dipendenza verso il complesso agro-industriale degli agricoltori che si lanciano in questa direzione rischia di accrescersi ancora: non contenti di esseri tenuti al laccio dalle banche, dai giganti della chimica e delle sementi, dai fabbricanti di macchine, dai mastodonti dell’agroalimentare e della distribuzione, sarebbero ben presto imbrigliati innanzitutto dai tycoons del digitale (Google, Amazon, Microsoft, oppure Ali Baba e Huawei…) e dalla miriade di attori capitalisti minori che gravitano nella loro orbita.

La neolingua degli ingegneri e dei pubblicitari raggiunge il culmine della menzogna quando essa fa balenare delle conquiste di autonomia agli agricoltori che ricorrono a dei veicoli e a delle macchine «autonomi». La perdita di saper-fare provocata dalle tappe precedenti dell’industrializzazione, al contrario, si perfeziona attraverso l’uso «a ogni angolo del campo» di computer e dei loro sistemi esperti: gli allevatori sono incitati a delegare l’integralità delle cure verso il loro bestiame (sempre più numeroso); i coltivatori sono addestrati a non contare più sulle proprie riflessioni, basate sul tatto, sulla vista, sul «sentire», affidando a degli automatismi la quasi totalità delle proprie analisi sulle condizioni della terra, del cielo e degli altri elementi che intervengono nelle loro colture. La perdita d’intelligenza sensoriale che ne risulterà meccanicamente compendia la perdita di gusto delle verdure, dei frutti e dei formaggi così prodotti.

La fuga in avanti nella potenza e nella miniaturizzazione proseguirà il declino del numero di agricoltori, nonché la concentrazione delle terre. Certo, in un paese come il nostro non rimane molto da eliminare: partendo da 400.000 agricoltori, la robotica non potrà sopprimerne milioni! Tuttavia, l’emorragia potrebbe subire un’accelerazione significativa in certi paesi del Sud, che hanno conosciuto poco o nulla le tappe precedenti dell’industrializzazione: l’introduzione delle tecnologie «4.0» potrebbe (a certe condizioni) rappresentare il punto d’inizio di una modernizzazione dalle conseguenze tanto ignote quanto esplosive, socialmente e culturalmente. Alle nostre latitudini, il discorso pubblico di diversi promotori della robotica assicura che i loro propositi non vanno di pari passo con la concentrazione. Questo è in particolare il caso della start-up tolosana Naïo Technologies, ben stamburata dai media nei quali pubblicizza il suo credo di «robotica ecologica» – il cui avamposto sono dei mini-robot, non troppo cari, destinati ad aiutare i piccoli appezzamenti (di vigne, per esempio) a fare a meno dei pesticidi. Ecco due aneddoti che forniranno un’idea della presa in giro. Il primo è stato raccolto durante la contestazione del Forum internazionale della robotica agricola (Fira) nel 2018 a Toulouse, organizzato appunto da Naïo con il sostegno dell’INRA [l’Istituto Nazionale della Ricerca Agronomica, grosso modo l’equivalente dell’italiano CREA, Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria]. Mentre alcuni allevatori, contadini-panettieri, ortolani e altri oppositori dell’informatizzazione del mondo interrompevano gli interventi dei managers di John Deere o Microsoft, una giornalista presente all’alterco si girò verso le imprese che stavano presentando i loro robot nella hall del Forum. Si fece passare per una produttrice di piccoli frutti della regione occitana interessata alle possibilità di automatizzare il proprio lavoro. Quando si rivolse all’impresa Carbon Bee dicendo di coltivare delle fragole su… 200 ettari (laddove la media delle aziende agricole di piccoli frutti in Francia era, nel 2016, attorno ai 16 ettari), l’addetto commerciale dietro lo stand le rispose con un gran sorriso: «ah no, non abbiamo niente per lei; se coltivaste mais su 1000 ettari, potremmo cominciare a discutere» (2). Il secondo aneddoto è stato raccolto presso un ingegnere tolosano che aveva lavorato nell’automatizzazione dei veicoli e che Naïo Technologies aveva contattato in vista di un’assunzione: si ricorda che in occasione di una discussione con un co-fondatore della start-up, costui gli aveva spiegato che Naïo lavorava certo su robot molto grandi per grandi appezzamenti, ma che lo scopo era quello di assicurarsi dei margini economici per mettersi in seguito al servizio dei piccoli agricoltori. L’idea che sono le economie di scala e i tassi di produttività incessanti dei grandi a provocare, in buona parte, l’eliminazione sistematica dei più piccoli, non gli passava nemmeno per l’anticamera del cervello.

L’agricoltura «di precisione» è un investimento duraturo nel prosieguo della distruzione degli ambienti di vita, ovunque nel mondo. La sua pretesa ecologica è una mostruosa menzogna, basata sulla semi-invisibilità sociale, in Occidente, del saccheggio reso necessario dalla fabbricazione e dal funzionamento degli apparecchi informatici. Ammettiamo pure che la robotica agricola permetta qualche risparmio in termini di pesticidi, di fertilizzanti, d’antibiotici, d’acqua e di petrolio nel lavoro agricolo – il che è del tutto ipotetico in teoria e potrebbe rivelarsi falso in pratica. Questo progresso assai parziale sarebbe pagato ad ogni modo con una crescita vertiginosa della produzione di artefatti elettronici così come con il consumo di elettricità necessaria alla loro fabbricazione, alla circolazione e allo stoccaggio dei dati informatici. Ora, numerosi rapporti e ricerche importanti pubblicati in questi ultimi anni ci forniscono tutti gli elementi per capire che l’accelerazione dello sviluppo dell’industria digitale – spesso giustificata attraverso la chimera della «transizione ecologica» – è insostenibile (3). Al punto che alcuni affermano che il digitale sarà il cuore della catastrofe ecologica (4).

È la fabbricazione del materiale informatico ad avere l’impatto ecologico più pesante, in termini di energia, d’acqua e di metalli. La crescita del digitale è un fattore centrale dell’attuale boom minerario, il che fa dire a Anna Bednik che ci apprestiamo ad estrarre dalla crosta terrestre in una generazione più metalli che in tutta la storia dell’umanità (5). Microprocessori, schermi tattili, chip RFID e batterie esigono quantità faraoniche d’oro, di rame, di tungsteno, di litio, e di «terre rare» (neodimio, ittrio, cerio, germanio…). Ora, l’industria mineraria è terribilmente inquinante ed energivora:

Contrariamente al loro nome, le terre rare non sono tanto rare, quanto difficili da estrarre. […] La separazione e la raffinazione di questi elementi naturalmente agglomerati con altri minerali, spesso radioattivi, implicano una lunga serie di processi i quali abbisognano di grandi quantità di energia e di sostanza chimiche: diverse fasi di frantumazione, di attacco a base di acidi, di clorazione, d’estrazione tramite solvente, di precipitazione selettiva e di dissoluzione. […] Stoccati in prossimità delle fosse minerarie, gli sterili, questi immensi volumi di rocce estratti per accedere alle zone a più alto concentrato di minerali, generano spesso delle fuoriuscite solforose che drenano i metalli pesanti contenuti nelle rocce, e li fanno migrare verso i corsi d’acqua. […] La quantità d’energia necessaria per estrarre, frantumare, trattare e raffinare i metalli rappresenterebbe dall’8 al 10 % dell’energia totale consumata nel mondo, facendo dell’industria mineraria un attore principale del riscaldamento climatico (5).

A questo si aggiunge il contributo del digitale all’effetto serra tramite la produzione di elettricità – che il suo impiego quotidiano comporta – in crescita permanente. L’insieme degli equipaggiamenti digitali consumava alla fine degli anni 2010 tra il 10 e il 15 % dell’elettricità mondiale. Tale consumo raddoppia ogni quattro anni, il che potrebbe portare la parte del digitale al 50 % dell’elettricità mondiale nel 2030 (!) – vale a dire una quantità equivalente a ciò che l’umanità consumava in totale nel 2008, appena tredici anni fa.

Queste proiezioni vertiginose sono in parte illuminate dalle stime contenute in diversi studi recenti (6), sulla potenza elettrica richiesta da un data center (equivalente a quella di una città di 50 mila abitanti), dai 10 miliardi di e-mail inviate ogni ora nel mondo (equivalenti alla produzione oraria di 15 centrali nucleari, o a 4000 viaggi di andata e ritorno da Parigi a New York in aereo), dai 140 miliardi di ricerche su Google ogni ora ecc.

Il mostro meccanico dell’agricoltura industriale ha già confiscato la terra alle contadine e ai contadini del Nord. Ma, con la robotizzazione, esso confisca e saccheggia la terra ovunque sul Pianeta, a spese dei contadini, degli ultimi raccoglitori-cacciatori e di tutti gli umani che vorrebbero farne un uso più cooperativo e perenne. Nelle seguenti frasi di Guillaume Pitron, all’inizio de La guerra dei metalli rari, si può aggiungere senza esitazione «tecnologie 4.0», «droni agricoli», «robot di diserbo», «sistema intelligente d’ottimizzazione dell’irrigazione»:

Questa panoramica degli impatti ambientali dell’estrazione dei metalli rari ci costringe, di colpo, a porre uno sguardo più scettico sul processo di fabbricazione delle tecnologie verdi. Ancor prima del loro impiego, un pannello solare, una pale eolica, un’auto elettrica o una lampada a basso consumo portano con sé il peccato originale del loro pessimo bilancio energetico e ambientale. […] Volendoci emancipare dalle energie fossili, in bilico tra un mondo vecchio e un mondo nuovo, sprofondiamo in realtà in una nuova dipendenza, ancora più forte. […] La transizione energetica e digitale devasterà l’ambiente in proporzioni ineguagliate. In definitiva, i vostri sforzi e il tributo richiesto alla Terra per forgiare questa nuova civiltà sono così considerevoli che non sono nemmeno sicuro che possiate riuscirci (7).

Siamo convinti che le scelte operate nel modo di produzione (in primo luogo nel rapporto con gli strumenti e con il capitale) definiscano la qualità dei rapporti sociali nei quali produciamo e mangiamo. Queste scelte hanno un impatto sull’accesso all’alimentazione e sul sentimento che accompagna le crescenti disuguaglianze in materia. Allo stesso modo in cui dobbiamo chiederci quale alimentazione vogliamo, dobbiamo chiederci quali macchine vogliamo. Poiché lo strumento che usiamo, la nostra capacità di ripararlo o di adattarlo, determinano il modello agricolo nel quale lavoriamo e di cui mangiamo i prodotti: lo sappiamo, delle macchine (stra)potenti e costose spingono a creare appezzamenti più grandi, raramente compatibili con un’agricoltura contadina. Noi affermiamo la nostra volontà di batterci contro «le tecnologie che minano le nostre capacità di produzione alimentare». Non ci sarà alcuna autonomia alimentare senza autonomia tecnica.

Vogliamo credere che l’emergere delle tecnologie cosiddette «4.0» (l’«agricoltura connessa») costituisca una delle soglie che può provocare una reazione conseguente nella società. Sogniamo una risposta a questa offensiva robotica (droni, trattori guidati dai satelliti, algoritmi di comando nei capannoni…) che sia almeno degna di quella che era esplosa, con gran stupore dei tecnocrati, contro gli OGM venticinque anni fa. Fare inchiesta, gettare discredito, sabotare: chi vuole combattere con noi i robot negli anni 2030? Chi vuole denunciare le ricerche condotte nei laboratori dell’INRA (e da una pletora di start-up) e i prototipi che vi sono realizzati, visto il loro sicuro impatto sociale ed ecologico? Chi vuole sabotare i grandi eventi del complesso agro-industriale nei quali queste innovazioni sono celebrate e trasfigurate per assicurare la loro adozione da parte dei rappresentanti del settore e altri «leader d’opinione»? Chi vuole entrare in conflitto con le fattorie giganti (e meno giganti…) che le hanno già comprate o con i concessionari che distribuiscono queste droghe industriali? Appello ai colibrì di tutti i paesi: ciascuno dovrà fare la sua parte per spegnere l’incendio elettromagnetico, e avere così una piccola possibilità di bloccare la caduta da 400 mila a 200 mila agricoltori, programmata (per la Francia) grazie a queste meraviglie tecnologiche.

Il riferimento alla lotta contro gli OGM è inaggirabile. Fu un decennio decisivo nella lotta contro l’artificializzazione del vivente, una campagna di lungo corso, che ha unito cittadine e cittadini a fianco delle resistenze contadine. Il 7 giugno 1997, diverse centinaia di militanti anti-OGM e della Confédération paysanne distruggono un campo di colza transgenica a Saint-Georges-d’Espéranche. Poi, l’8 gennaio 1998, José Bové, René Riesel e altri della Confédération paysanne entrano in un deposito della società Novartis a Nérac per mescolare delle sementi di mais transgenico con delle sementi convenzionali. Poi, il 2 giugno 1999, circa 200 militanti distruggono un campo di colza transgenica, una coltura sperimentale sviluppata dall’INRA e dal CETIOM (Centre Technique Interprofessionnel des Oléagineux Métropolitains) a Montpellier. Queste due azioni costituiscono il punto più alto della resistenza attraverso l’azione diretta, poiché in quel momento è identificata chiaramente la collusione del complesso agro-industriale con la ricerca di Stato, chiaramente svelato agli occhi di tutte e tutti l’impatto mortifero della tecnoscienza sull’agricoltura e sull’alimentazione, chiaramente attaccata la sua infrastruttura, per fermarne l’avanzata. (8)

Gli anni successivi vedranno susseguirsi decine di falciature [di campi transgenici] in diversi territori, seguìte da altrettanti processi che intensificano la repressione a partire dal 2001, quando saranno emesse le prime condanne al carcere per i «falciatori», fino al 2005-2006. Le preoccupazioni persistenti in merito al controllo delle sementi o ai pesticidi in una parte dell’opinione pubblica derivano molto probabilmente da questa battaglia, e forse anche la cattiva coscienza, che affiora dall’inizio del secolo, per il sacrificio dei contadini nella società dell’abbondanza, problema che (quasi) nessuno prima percepiva.

La guerra degli OGM non ha segnato una vittoria totale e definitiva dell’opposizione, ma solo un temporeggiamento da parte dei promotori dell’agricoltura transgenica, i quali hanno dovuto grattarsi il capo per aggirare, nel tempo e nello spazio, la diffidenza diffusa dei cittadini-consumatori europei. Dal momento che il mangime dei bestiami francesi (o europei) è in gran parte costituito da soia transgenica sudamericana; dal momento che consumiamo così tanti prodotti provenienti dal mondo intero, il divieto alla coltivazione degli OGM in Europa ha un impatto assai limitato: mangiamo tutti ormai regolarmente degli OGM. E gli stratagemmi industriali per reintrodurre appena possibile degli OGM nei campi francesi, senza dichiararlo apertamente, sono stati tanto potenti quanto astuti, grazie agli interstizi o alle falle nei regolamenti. È il caso delle manipolazioni necessarie all’acquisizione forzata della sterilità maschile citoplasmatica (varietà di piante a CMS), oppure più di recente della mutagenesi (mutazione genetica ottenuta tramite l’esposizione a delle molecole di sintesi) che permette l’emergere di varietà artificiali, in particolare resistenti agli erbicidi. Un OGM nascosto o un OGM di ultima generazione è un OGM.

L’altro grande limite della battaglia contro gli OGM è che la presa di coscienza su quello che si giocava nell’avanzata delle tecnologie transgeniche è stata sensibile, ma limitata. Né il bricolage genetico nel suo insieme né l’industrializzazione dell’agricoltura sono diventate questioni politiche centrali, a misura della loro gravità. Il punto «caldo» del 1999, con il suo chiaro attacco contro la tecnostruttura all’opera, non sarà più raggiunto, e le rivendicazioni non saranno più riprese, né la loro rilevanza compresa, da tutti i protagonisti. È sempre il problema delle battaglie contro le novità apparentemente radicali: non si sa se si tratta di sottolineare la rottura che introducono, o al contrario di insistere sulla continuità che presentano con le traiettorie tecnologico-politiche di lungo termine. Così, la battaglia contro gli OGM attorno al 2000 è stata per alcuni l’occasione di comprendere il senso profondo della tecnica d’ibridazione risalente (per il mais) al 1920: un bluff scientifico, che ha spinto i coltivatori a svalutare le loro sementi di fattoria e ad acquistare ogni anno quelle prodotte dai selezionatori (pubblici e poi privati), benché le seconde non siano più ibride delle prime.

Le sementi ibride prefiguravano profondamente gli OGM nelle loro conseguenze sociali (spossessamento) ed ecologiche (uniformazione genetica). Era contro tutto il processo d’industrializzazione sotto l’egida della Big Science, in atto da un secolo, che bisognava battersi. Allo stesso modo, una battaglia seria contro l’agricoltura 4.0 non può ignorare che la deumanizzazione, il sequenziamento del lavoro agricolo e della produzione di minerale alimentare sono già ampiamente avviati, prima dello stadio ultimo degli algoritmi, dei droni e del 5G. Non è solo contro l’escalation tecnologica forsennata dell’èra Google-Elon Musk-Macron che occorre muoversi, ma per una de-escalation tecnologica che abbracci diversi decenni. Azioni contro i dispositivi connessi di ultima generazione oppure contro le imprese che mettono a punto le ultime applicazioni agricole per smartphone avrebbero senza alcun dubbio una grande utilità in quanto tali, ma esse assumerebbero tutto il loro senso nella misura in cui fossero l’occasione per denunciare anche i robot per la mungitura che risalgono agli anni ’90, i robot di distribuzione del mangime per gli animali che risalgono agli anni ’80, o i robot Hercule degli anni 2000, che permettono di evacuare facilmente le decine di cadaveri di scrofe morte prematuramente negli allevamenti industriali «fuori-suolo». I trattori e altri strumenti automotori sono da lunga data mostruosamente grandi e rapidi e simboleggiano da soli lo sperpero generalizzato del modello intensivo (9).

Altro parallelo iperconnesso: criticare l’escalation del passaggio «forzato» al 5G non serve a nulla se non si mette in discussione anche il passaggio al 4G e alla fibra ottica. Senza un lavoro critico su quello che è già stato in buona parte adottato, la possibilità di assestare una battuta d’arresto alle innovazioni del momento e ai processi che queste coronano (provvisoriamente) è quasi nulla. È un movimento di retromarcia* che occorre riuscire ad avviare nella società in generale, e nell’agricoltura in particolare. Finché sembrerà naturale a un agricoltore come a chiunque altro delegare tutti gli aspetti della propria vita a uno smartphone, questi lo utilizzerà anche per gestire il suo bestiame, l’innaffiamento o i trattamenti fitosanitari. È evidente che la battaglia contro il 5G come quella contro la robotica agricola sono culturali e politiche. Pongono delle questioni di potere, ma soprattutto di modi di vita, di contenuto del lavoro, della maniera di fare esperienza degli oggetti e degli esseri che ci circondano.

Speriamo di trovare degli alleati nella galassia anti-5G emersa questi ultimi anni per lanciare una campagna specifica nelle campagne contro le tecnologie (di domani e di ieri) che rafforzano quotidianamente il modello intensivo; ma di trovarne anche dentro il movimento per l’agricoltura contadina, malgrado il suo scarso appetito per la critica delle tecnologie, in particolare digitali (e la credenza che vi predomina di poter dissolvere l’agricoltura industriale senza passare attraverso un significativo conflitto sociale).

Non ci resta che passare dal colibrismo, per lo più digitale, a un’offensiva che miri a una de-escalation tecnologica di massa, che contribuisca cioè a un’indispensabile trasformazione sociale e non a un tecnologismo alternativo…

Le fattorie digitali sono già in fase finale di sperimentazione.

Non ci resta che unirci, sollevarci, riprendere la terra alle macchine.

[Brani tratti da L’Atelier Paysan, Reprendre la terre aux machines. Manifeste pour une autonomie paysanne et alimentaire, Seuil, Paris, 2021. L’Atelier Paysan è una cooperativa di autocostruzione di macchinari per i campi, un «organismo di sviluppo agricolo e rurale» che opera per «la generalizzazione di un’agroecologia contadina, per un cambiamento di modello agricolo e alimentare radicale e necessario», accompagnando «le agricoltrici e gli agricoltori verso una concezione inedita e sovversiva delle macchine e degli edifici», per «ritrovare collettivamente una sovranità tecnica, un’autonomia attraverso il mutuo soccorso e la riappropriazione delle conoscenze e dei saper-fare, controcorrente rispetto alle tecnologie che spossessano» (per maggiori informazioni: www.latelierpaysan.org).

1) Joëlle Zask, La Démocratie aux champs. Du jardin d’Eden aux jardins partagés, comment l’agricolture cultive les valeurs démocratiques, La Découverte, Paris, 2016, p. 33.

2) Cfr. la cronaca del professor Canardeau, Paysan, haut les mains !, nel «Canard enchaîné» del 19 dicembre 2018.

3) Guillaume Pitron, La Guerre des métaux rares. La face cachée de la transition énergétique et numérique, Le Liens qui Libèrent, Paris, 2018 (trad. it., La guerra dei metalli rari. Il lato oscuro della transizione energetica e digitale, Luiss, Roma, 2019); Cécile Diguet e Fanny Lopez, L’impact social et énergétique des data centers sur les territoires, Rapporto per l’Ademe, 2018.

4) Cfr. Matthieu Amiech, Peut-on s’opposer à l’informatisation du monde ?, «Terrestres», juin 2020

5) Anna Bednik, Extractivisme. Exploitation industrielle de la nature: logiques, conséquences, résistances, Le Passage clandestin, Paris, 2016, p. 112

6) Célia Izoard, Le bas-fonds du capital, «Z», n. 12, «Guyane. Trésors et conquêtes», autunno 2018, pp. 12-14.

7) Proposti da Anders S.G. Andrae e Tomas Edler, in On Global Electricity Usage of Communication Techlogy : Trends to 2030, «Challenges», n. 6, 2015, pp.117-157. Sottolineamo che queste statistiche hanno tutte le probabilità di essere superate per eccesso a causa della pandemia e del confinamento.

8) Guillaume Pitron, La Guerre des métaux rares, op. cit., pp. 55, 26 e 22 (l’ultima parte va letta come un avviso ai politici che hanno sottoscritto l’accordo di Parigi sulla lotta contro il riscaldamento climatico).

9) Sulla campagna contro gli OGM, sulle posizioni teoriche espresse fuori e dentro dei tribunali, nonché sul successivo ruolo di Bové nel loro annacquamento cittadinista, si può leggere in italiano: René Riesel, Sulla zattera della medusa. Il conflitto sugli ogm in Francia, 415, Torino, 2004 (NdT).

10) Rinviamo lettori e lettrici al nostro rapporto Observations sur les technologies agricoles, uscito nell’estate del 2021 e consultabile sul nostro sito: www. latelierpaysan.org

* Nell’originale machine arrière, letteralmente “macchina indietro”. Riferimento al testo di Pièce et main d’œuvre, Machine arrière ! Des chances et des voies d’un soulèvement vital, pièce détachée n. 77, marzo 2016.

La caduta di una civiltà è spesso accompagnata da un ingannevole aumento dell’attività sociale. Come in un corpo febbricitante, le pulsazioni divengono più rapide, il ritmo dell’ossidazione più veloce, e persino il rossore sulle guance del paziente può dare la falsa apparenza della salute: solo l’occhio vitreo indicherà che il paziente è inconscio di quanto accade intorno a lui: la sua mente è in lotta con i fantasmi.

[…] Più grandi divenivano le città romane, e più gli abitanti di Roma perdevano il quotidiano contatto con la terra; più grandi erano le conquiste ai confini dell’Impero, e più numerose erano le sconfitte civiche al centro; e tanto maggiore sfoggio di giurisprudenza si faceva nei quotidiani rapporti umani, e tanto più ingiuste sembravano le fondamenta su cui riposava l’intera struttura dell’amministrazione e della legge. Sintomi di svitalizzazione, scoraggiamento e disgusto apparvero molto prima dell’effettiva disintegrazione di Roma.

[…] Con tutto il generoso sfoggio romano di legalità, giustizia, ordine, il fatto economico reale era il saccheggio e l’estorsione, e la pietra angolare di tutto il sistema era la schiavitù umana.

Lewis Mumford, La condizione dell’uomo, 1944